giovedì 25 maggio 2017

Le parole di Morrissey sulla strage di Manchester rompono la liturgia del terrore


E' difficile trovare l'equilibrio necessario a scrivere di un argomento, quando quell'argomento è la strage deliberata di ragazzini. Il massacro feroce, la volontà di provocare dolore, disperazione, annientamento.

Il Terrore.

Eppure ancora una volta il mostro ha invaso la nostra vita, costringendoci a fissarlo negli occhi attraverso lo schermo di un cellulare, di un computer, di un televisore, sulle pagine dei giornali. E lunedì notte si è fatto carnefice di bambini e adolescenti, radunati per condividere un momento di divertimento al concerto di una cantante pop loro beniamina e quasi coetanea.

Attorno ad ogni strage compiuta nel cuore delle città d'Europa nel nuovo millennio sembra essersi creato un macabro protocollo, una vera liturgia del terrore: prima c'è lo strazio di corpi macellati da bombe, squartati da tir o crivellati da colpi di mitra, poi il torrente di dichiarazioni ufficiali che sembrano ciclostilate per quanto si somigliano, impegni tanto solenni quanto vaghi, indignazioni e cordogli impeccabili nella forma e vuoti nella sostanza; infine arriva il diluvio di analisi che triturano l'evento, ne mescolano le cause, ne sterilizzano il senso e ne stravolgono l'essenza, finché il tutto viene sepolto ("Tout est pardonné") dalla marea delle notizie più fresche, in attesa del nuovo massacro.

Con una presa di posizione decisamente lontana dal politicamente corretto, l'ex-leader degli Smiths Morrissey ha voluto strappare il velo di questa liturgia, sottolineando come le parole delle autorità britanniche, pronunciate al riparo di apparati di sicurezza straordinari, suonino prive di significato alle orecchie delle persone comuni, sempre più spesso le uniche vittime del terrore.

"Theresa May - scrive Moz - dice che questi attacchi 'non ci spezzeranno', ma la sua stessa vita è al sicuro di una bolla a prova di proiettile, e chiaramente lei non dovrà andare ad identificare nessun ragazzino negli obitori di Manchester oggi".

Questo è uno dei punti principali su cui bisognerebbe riflettere: è possibile, davanti ad un terrorismo che ha scelto come unico obiettivo delle sue mattanze le persone comuni, meglio se indifese come i bambini, accontentarsi delle parole di routine di chi vive lontanissimo dal problema? Di chi dispone di una "bolla a prova di proiettile"? E le potenziali vittime del terrore possono accontentarsi di generiche parole di dolore e condanna, o devono iniziare a pretendere reazioni chiare e precise dai propri governanti?

Ci viene detto che questa condizione di insicurezza e paura costante è destinata a durare decenni, ma che noi non dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. Come se il terrorismo fosse qualcosa al di fuori della nostra capacità d'intervento, qualcosa che non si può combattere, ma solo subire sperando che faccia meno danni possibili. Un fenomeno alla pari di terremoti e uragani.

Eppure non è così. Le vite di Georgina, Saffie, Lisa, John, di tutte le vittime di Manchester e delle altre 600 in tutta Europa dal 2004 ad oggi non sono state stroncate da terremoti né da uragani, ma dalla mano di uomini invasati da un pensiero che è insieme ideologia politica e religione. Un pensiero che si annida nel mondo islamico sunnita in Medio Oriente e in Europa e non solo prevede, ma incoraggia come metodo di lotta l'omicidio di cristiani, induisti, atei e persino islamici di correnti diverse. Il pensiero della Jihad.

I popoli nel mirino del jihadismo hanno il sacrosanto diritto di non essere presi in giro dai loro governanti con frasi di circostanza e inviti a comportarsi come se nulla fosse successo. Hanno il diritto di chiedere come mai dopo oltre 7 anni di conflitto le maggiori potenze militari del mondo sono ancora lontanissime dal piegare lo Stato Islamico, come mai jihadisti già noti ai servizi segreti girano tranquillamente per l'Europa dopo aver viaggiato in Libia, Siria o in altri territori sotto il controllo jihadista, come mai ancora si insiste a ripetere la bufala dei cani sciolti che si "radicalizzano" all'improvviso, come prendessero una strana malattia, e si minimizza la rete di connivenze e sostegni che emerge dopo ogni attentato, come mai si è rapidissimi nell'imporre sanzioni economiche e blocchi commerciali per i motivi più futili, ma non si prende nessuna misura contro lo stato più sospettato di foraggiare l'Is ed il terrorismo in Europa.

Al jihadismo non si può rispondere disegnando per terra con i gessetti, né inondando i social network di bandiere delle nazioni colpite, né con sit-in o concerti. Questi gesti sono buoni per riempire il minutaggio dei telegiornali, magari anche per alleviare temporaneamente il dolore e lo smarrimento, ma non hanno protetto Georgina, Saffie, Lisa, John e gli altri ragazzini di Manchester e non proteggeranno neppure le prossime vittime del terrore.

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