venerdì 8 agosto 2014

Alice nel paese della Spesa Pubblica

Immagine © Zenescope


Capita, spulciando i quotidiani online, di imbattersi in un articolo di Fabio Tamburini per il Corriere, in cui si intervista Roberto Poli, consulente aziendale, ex docente di finanza aziendale, ex presidente dell'Eni, membro del comitato europeo della Commissione Trilaterale e dal 2008 Cavaliere del Lavoro.
Il tema dell'intervista è il Babau che tanto indigna e spaventa il mondo dell'informazione e, di riflesso, gran parte degli italiani: il debito pubblico.

Il team guidato dal Cav. Poli ha effettuato un'analisi comparata sulla finanza pubblica da cui emerge che nel periodo tra il 1993 ed il 2013 l'Italia è, tra i grandi paesi europei, quello che ha conseguito il miglior avanzo primario (al netto degli interessi), pari a 585 miliardi di euro. La virtuosissima Germania, per dire, si è fermata a +80, mentre la Francia ha registrato un -479.

Italia +585
Germania +80 (dal 1995)
Francia -479

Ma come... l'Italia non era il paese della terribile spesa pubblica improduttiva? Degli sprechi? Quello che aveva vissuto al di sopra delle proprie possibilità e quindi meritava di subire la frusta dell'austerità? Davvero ora si dice che la P.A. italiana, per gli autorazzisti capace solo di corruzione, ladrocinio e inettitudine, è la più virtuosa nel rapporto tra spese ed entrate? E che questo non è il dato casuale di un breve periodo, ma degli ultimi 20 anni?
C'è qualcosa che non va...

Torniamo all'intervista, che prosegue chiarendo come il problema per le finanze pubbliche nasce quando alle cifre riportate sopra si aggiungono gli interessi sul debito (l'Italia impiega circa il 6% del Pil per questa voce, contro una media del 2,5% di Germania e Francia). «Un debitore con debito elevato - dice Poli - paga interessi più che proporzionali. E tutto questo è la conferma del peccato originale che l’Italia si trascina dal 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, sottoscritto pur avendo un parametro del tutto fuori controllo: il debito pubblico, che rappresentava il 104,7% del Pil contro il 42% della Germania, il 39,7% della Francia e il 45,5% della Spagna».

Fin qui il discorso è piuttosto lineare: nonostante da anni si stiano facendo sforzi notevoli per accumulare avanzo primario, l'importo degli interessi sul debito rende questi sforzi vani. Pare, quindi, che il problema non sia tanto il debito pubblico in sé, quanto piuttosto gli interessi che su questo paghiamo.
La soluzione indicata da Poli è piuttosto discutibile (i soliti tagli e la solita svendita di patrimonio immobiliare), ma la testimonianza è utile a smontare il luogo comune autorazzista dell'Italia spendacciona che non meritava il benessere goduto tra gli anni '80 e '90.

Ora è il caso di dare uno sguardo a questo grafico:

Fonte: www.keynesblog.com
Questa è la "foto" del rapporto tra debito e Pil nel periodo 1960 - 2010. Il tratto in rosso indica la fase storica in cui il debito pubblico è esploso. C'è anche indicato chiaramente il nome del detonatore e la data dell'innesco: 1981, divorzio Banca d'Italia - Tesoro.
Cos'è successo dal 1981 per causare un'impennata così importante del debito pubblico?
Una pioggia di auto blu e relative scorte?
Dieci anni di festini ininterrotti a spese dei contribuenti?
Una corsa all'acquisto di camionate di mutande con soldi pubblici da parte dei nostri onorevoli?

Anche, forse, ma soprattutto è successo che lo Stato ha iniziato a finanziarsi a prezzo di mercato. Dove prima poteva ricorrere alla Banca d'Italia, che comprava i titoli di Stato invenduti presso i privati mantenendo i tassi d'interesse sotto controllo, dopo il 1981 l'unico modo di trovare finanziamento era alzare i tassi d'interesse sui titoli di Stato ogni volta che il mercato non avesse trovato allettante l'offerta. Interessi più alti significa più denaro da dover restituire, quindi debito pubblico maggiore. La spesa per interessi passivi dopo questo capolavoro schizzò dai 28,7 miliardi di Lire del 1981 ai 147 del 1991.

Innescato il meccanismo che accelerava la crescita del debito pubblico, non appena il Pil ha decelerato il bilancio complessivo dello Stato ha iniziato ad andare a soqquadro (Da un rapporto debito/Pil del 56,8% nel 1980 al più inquietante 105,2% del 1992 fino al catastrofico 132,6% di quest'anno).

Purtroppo, nonostante l'evidente chiarezza di questi dati, nonostante abbiano sotto gli occhi un crimine di cui conoscono il colpevole (divorzio Bankitalia-Tesoro), il luogo (mercato dei titoli di Stato) e la data (1981), i media ripropongono ossessivamente la storiella del debito pubblico esploso esclusivamente per gli "sprechi" e per la "casta" (che ci sono stati, senza dubbio, ma non solo in Italia e non in misura tale da distruggere i conti pubblici nazionali). Ancora una volta quello che si vuole creare è un frame semplice da far introiettare ai cittadini più disimpegnati, perché creino delle associazioni automatiche del tipo:

Stato sprecone -> Debito Pubblico cattivo -> Crisi

A cosa porta la diffusione di questo pensiero? Intanto a facilitare il consenso in ampi strati sociali verso politiche di riduzione del perimetro dello Stato, identificato in modo spicciolo con il "male", senza minimamente valutare che Stato è anche sicurezza, energia, trasporti, sanità, scuola, in breve civiltà. L'altra conseguenza del frame innescato e rafforzato dai media è l'avvilimento delle energie nazionali, lo scoramento davanti a problemi che non hanno più cause e soluzioni, ma sono presentati come innati nella natura stessa dell'essere Italiani. Conseguenza della perdita di fiducia nell'identità nazionale e nelle capacità della Nazione di superare le crisi e garantire benessere ai cittadini è la maggiore propensione a sostenere politiche di ulteriore perdita di sovranità a favore di organismi proditoriamente presentati come "tecnici", quindi contemporaneamente "competenti" e "imparziali".

In breve, prima si è legata mani e piedi la Nazione costringendo lo Stato a farsi prestare denaro a tassi d'interesse insostenibili, poi quando il peso del debito derivante da questa menomazione è diventato insopportabile, si è accusato lo Stato stesso di non riuscire a correre, ingigantendo a dismisura l'attenzione su problemi sicuramente gravi e reali (sprechi, corruzione, costo della classe dirigente) ma responsabili solo in parte minoritaria del problema. Tutto questo per costringere verso un cammino di disgregazione dello Stato, che viene progressivamente spogliato sia della forza economica (privatizzazioni, vincoli vari, obiettivi fantasiosi ma obbligatori) che della sovranità politica (costante controllo delle autorità sovranazionali - UE - sulla normazione nazionale, prevalenza delle normative sovranazionali su quelle nazionali).

E gli sviluppi dell'ultima ora non fanno che confermare il tutto.

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