martedì 31 marzo 2015

Poletti, Marino e la rivincita dei Puritani


La recente proposta del ministro Poletti di ridurre le vacanze estive degli studenti e la quasi contemporanea stretta del sindaco Marino sulle pubblicità "sessiste" nei cartelloni pubblicitari a Roma rappresentano due aspetti di una corrente di pensiero presente in parte della classe dirigente nazionale, che si potrebbe definire in sintesi "neo-puritanesimo".

Del movimento nato nel XVI secolo come costola del calvinismo i neo-puritani hanno due aspetti fondamentali: la convinzione di essere predestinati a guidare la società verso un futuro certo e inevitabile (la volontà di Dio all'epoca, il cosiddetto "politicamente corretto" ora) e l'insofferenza verso tutto ciò che è leggerezza, divertimento o anche semplicemente ozio.

Per questi nuovi paladini del rigore morale le vacanze estive degli studenti sono "tre mesi senza far nulla", che potrebbero essere meglio impiegati "lavorando tre o quattro ore al giorno", mentre al solo vedere una figura femminile che si occupa (orrore!) della propria casa o della propria famiglia, o che non mortifica la propria bellezza si urla immediatamente allo "sfruttamento del corpo femminile" ed all'inevitabile "sessismo" (che poi è sempre e solo maschilismo).

Fin qui poco male: in democrazia ognuno può manifestare le proprie idee, per quanto grigie e bigotte siano. Il problema dei neo-puritani però è che non si limitano ad esprimere un'opinione, né a tentare di influenzare la società a livello culturale. Loro impongono, decretano, reprimono, obbligano.

Così a Roma i cartelloni pubblicitari saranno passati preventivamente al vaglio di una sorta di Ufficio Censura: la casalinga ai fornelli è sessista, la manager in tailleur va bene; la ragazza in bikini è offensiva, l'uomo in mutande no.

L'immagine di sinistra è sessismo, quella di destra modernità
Allo stesso modo è già in cantiere un provvedimento per ridurre il tempo libero degli studenti tramite non meglio specificate "attività". Magari qualche bello stage non retribuito, tanto per abituare le future generazioni a quella durezza del vivere che tanto piaceva a qualcuno.

Il punto che questa gente non riesce a capire è che le società umane necessitano anche di momenti di ozio, anche di divertimento fine a se stesso, anche di spazi di cattivo gusto. La foga censoria, il voler a tutti i costi reprimere la leggerezza, lo svago, la battuta triviale, non fa altro che comprimere e frustrare questi istinti, e la frustrazione porta inevitabilmente ad un aumento dell'aggressività, questa sì socialmente pericolosa.

Un buon governante dovrebbe lavorare su questi temi soprattutto a livello culturale, promuovendo il proprio punto di vista e cercando di renderlo maggioritario nella popolazione; si può auspicare che gli studenti impieghino parte delle vacanze estive per attività di avvicinamento al mondo del lavoro, e si può spiegare che alcune pubblicità fanno scorrettamente leva su istinti sessuali anziché promuovere il prodotto che presentano, ma non si può usare la scure della legge per sagomare lo spirito di una società secondo i propri desideri.

E invece siamo di fronte alla continua intrusione nelle nostre vite degli alfieri del neo-puritanesimo, che in nome della loro presunta superiorità morale storpiano e stravolgono la legge per imporci cosa fare del nostro tempo libero, come usare il nostro corpo, come organizzare la nostra vita familiare, come essere donne e uomini.

Esattamente ciò che voleva il puritanesimo 5 secoli fa. 
Ma con una bella dose di politicamente corretto in più.

giovedì 19 marzo 2015

La guerra dei bottoni



Passata un po' in sordina per l'accavallamento con i più tragici fatti di Tunisi, ieri a Francoforte c'è stata l'inaugurazione della nuova sede della Bce: un "austero" grattacielo di 185 metri nella Grossmarkthalle costato circa un miliardo e duecento milioni di euro.

Ad accompagnare il lieto evento si sono radunate a Francoforte folle festanti di "cittadini europei", desiderosi di ringraziare le istituzioni per il benessere, la pace e la democrazia che l'Unione ha saputo portare nel vecchio continente... 

Beh, non proprio.

350 fermi, 16 arresti, dozzine di feriti, auto bruciate, vetrine fracassate, un intero quartiere blindato con filo spinato, elicotteri di pattuglia e cordoni di polizia in assetto antisommossa; ciò che si è visto a Francoforte aveva più il sapore della rivolta contro un'istituzione sempre più percepita come oppressiva e lesiva della dignità e del benessere dei popoli che le si sono affidati, piuttosto che quello della celebrazione di uno dei capisaldi (forse l'unico) della cosiddetta Unione Europea.   

Sembra che questa "Unione nata per la pace" stia diventando un immenso catalizzatore di rabbia, dolore, miseria. Ma c'è un però.

Ho deciso di intitolare questo articolo "La guerra dei bottoni" perché guardando le immagini delle migliaia di protestanti, sia quelli pacifici che soprattutto gli altri, ascoltando i loro slogan e leggendo le dichiarazioni a caldo di Draghi, la sensazione che ho è quella di una tragica pantomima in cui l'intero dibattito sul tema della crisi nel continente sia ingabbiato entro limiti prefissati che, guarda caso, tendono ad escludere il fattore principe della crisi stessa.

"No all'austerità", "Basta Troika", "In Europa più Atene e meno Berlino" sono slogan accattivanti che però si muovono tutti nel recinto della continuità dell'Unione Europea, che di volta in volta si vorrebbe "riformare", "umanizzare", "deberlinizzare". Questi oppositori, violenti o no, istruiti o no, in buona fede o no, sono tutti persi nel "sogno europeo" e non intendono minimamente metterlo in discussione. Tantomeno intendono mettere in discussione il dogma dei dogmi: la moneta unica, l'euro.

I vari Blockupy, come anche le Syriza, i Podemos e compagnia varia pretendono di curare il cancro senza rimuovere il tumore, perfettamente incardinati all'interno del frame imposto dall'Unione Europea che vede lo svuotamento degli Stati Nazionali come valore positivo da perseguire più velocemente possibile. Intossicati da una distorta lettura della storia recente ritengono che il sentimento nazionale sia la causa prima delle guerre ed hanno in odio il concetto di confine che intendono sempre e solo come limite, mai come semplice rimarcazione territoriale di identità, tradizioni e culture diverse. I sedicenti no global sono in fondo i primi paladini della globalizzazione, di cui si limitano a contestare solo le storture più macroscopiche senza mai contestare la filosofia di fondo, che anzi abbracciano in pieno.

E così la guerra contro lo svuotamento delle democrazie, contro il dominio totale dei capitali sui popoli, contro l'impoverimento economico e culturale di milioni di persone a vantaggio di elite queste sì globalizzate e anazionali si trasforma in guerra dei bottoni, semplice gioco in cui in fondo entrambe gli eserciti marciano sotto la stessa bandiera.

sabato 14 marzo 2015

Intanto in Islanda...

Sembra che il pesce islandese sia riuscito a scappare alla rete...
L'Islanda non vuole più l'Unione.

«Gli interessi dell’Islanda sono serviti meglio fuori dall’Unione Europea. L’Islanda non è più un paese candidato e chiede alla Ue di agire di conseguenza». Con queste scarne parole il ministero degli Esteri di Reykjavik ha annunciato il ritiro della candidatura del suo paese a membro della Ue.

E' la fine di un percorso iniziato con la vittoria del Partito Progressista (centro-destra) nel 2013. A gennaio di quest'anno erano stati bloccati i negoziati avviati dal precedente governo di centro-sinistra, e ieri è arrivato lo stop definitivo.

Piuttosto surreale la reazione dell'Unione: la portavoce del servizio diplomatico Ue si arrampica sui cavilli burocratici e sottolinea che l'Islanda «non ha formalmente ritirato la richiesta» di adesione, ma «sospeso il negoziato per due anni». «Se decidono formalmente di ritirare la domanda devono farlo al Consiglio dell'Ue che dovrà prendere le decisioni necessarie».
Prendere le decisioni necessarie? Forse negli uffici di Bruxelles sono troppo abituati a trattare con nazioni asservite e vicerè vari: l'Islanda non è la Grecia, cui si può far ingoiare di tutto; l'Islanda è una Nazione Sovrana e in quanto tale è lei a prendere le "decisioni necessarie". L'Unione può solo prenderne atto.

Naturalmente questa vicenda è passata nel silenzio più totale dei media: pochi articoli defilati sui principali giornali, zero visibilità televisiva (d'altra parte questa settimana c'era da parlare della vita sessuale di Berlusconi, che è molto più importante della più grave crisi economica dal 1929).

Rimane il fatto che l'Unione Europea sta rapidamente perdendo appeal sia all'interno dei suoi paesi membri che, soprattutto, all'esterno. E d'altra parte basta guardare qualche dato per capirne le ragioni:

A gennaio 2015 il tasso di disoccupazione nell'area Euro è dell'11,2%, in Islanda è al 4,4%; la disoccupazione giovanile è rispettivamente al 22,90 e al 9,10; il tasso di crescita annuale del Pil tra i paesi Euro nel 2014 si è fermato allo 0,9 mentre in Islanda è stato del 3 (Fonte: Tradingeconomics.com).

Già solo una veloce lettura dei dati basterebbe a giustificare la scelta islandese di tenersi più lontana possibile dal mostro eurocratico, ma giova anche ricordare che la sovranità economica consentì all'Islanda di affrontare la crisi del 2008 in modo opposto rispetto all'Unione: anziché scaricare i costi dello scoppio della bolla speculativa del settore bancario sui cittadini, il governo di Reykjavik lasciò fallire le banche. I creditori persero miliardi di dollari, ma il debito pubblico dell'isola non ne venne aggravato. A ridosso della crisi ci fu un brusco aumento dell'inflazione (fino al 19%) e lo stato dovette potenziare i fondi destinati all'assistenza sociale, ma già nel 2012 era scesa intorno al 5% ed oggi è allo 0,8%.

Niente austerità, niente compiti a casa, niente Troika (o come cazzo si chiama oggi). Solo indipendenza e libertà di governarsi secondo i propri bisogni.

In una parola, sovranità.

giovedì 5 marzo 2015

Primarie, il surrogato della democrazia


Le recentissime primarie Pd in Campania, come al solito, si sono tirate dietro un codazzo di polemiche, accuse e recriminazioni. A Viareggio non si terranno affatto, a Pomigliano sono state sospese, a Genova la vicenda è finita in mano agli avvocati, e ci sono ancora tanti e tanti casi di primarie contraddistinte da sospetti di brogli, voti multipli, gruppi di elettori "organizzati" e chi più ne ha più ne metta. A dieci anni dalla loro introduzione in Italia, sembra non si sia ancora in grado di garantirne lo svolgimento trasparente e regolare.

Ovviamente gli organizzatori continuano a sostenere con forza le primarie, che considerano uno strumento di grande democrazia, ed alcuni reagiscono alle critiche con un vecchio riflesso già visto quando si parla di Ue: "Le primarie non funzionano? Ci vogliono più primarie!". Così ogni tanto fa capolino la proposta di una legge ad hoc che non si capisce bene come potrebbe risolvere la questione: intanto questo strumento non è condiviso dalla maggioranza dei partiti italiani ma è utilizzato solo da una parte del centrosinistra. Si vuole obbligare tutti alle primarie? Oppure si prevede una legge che ne preveda un uso facoltativo? Inoltre c'è il problema della vigilanza sulla correttezza delle votazioni: va delegata allo Stato (con i relativi costi scaricati su tutta la cittadinanza) o si vuole gestirla internamente (cioè come si è fatto finora, con i risultati che si sono visti)?

Nell'attesa di capire il futuro delle primarie in Italia, c'è da notare la curiosa coincidenza che vede gli stessi paladini di questo strumento di "partecipazione democratica" impegnati a sottrarre via via quote sempre maggiori di vera partecipazione democratica. Poco meno di sei mesi fa la legge Delrio ha rimaneggiato le Province con l'obiettivo dichiarato di tagliare i costi; il risultato è che le Province esistono ancora, ma i consiglieri non sono più votati direttamente dai cittadini. Nel frattempo sta compiendo il suo percorso parlamentare la riforma del Senato che il Senato non lo abolisce, però abolisce l'elezione diretta dei senatori.

In pratica tra qualche tempo i cittadini saranno coinvolti direttamente solo per le elezioni comunali, regionali e parlamentari, mentre Province, Senato, Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica saranno espressione indiretta della volontà popolare e diretta degli apparati partitici. Tutto per "tagliare gli sprechi" e garantire "governabilità", ovviamente.

In compenso, i più nostalgici che ancora volessero indugiare nel vecchio, dispendioso vizio del voto elettorale avranno a loro disposizione l'ottimo surrogato delle elezioni primarie: con solo un paio di euro potranno provare ancora l'aroma della democrazia... o di qualcosa vagamente simile.