lunedì 18 dicembre 2017

Salta l'emendamento svendi-demanio, ma è fondamentale tenere alta la guardia.

Palazzo Caprara, Roma. Fino a ieri proprietà del popolo italiano, da domani apparterrà all'Emiro del Qatar.
Fortunatamente, dopo la levata di scudi delle opposizioni parlamentari e della parte più attenta dell'opinione pubblica, è durato solo qualche ora l'emendamento inserito alla chetichella nella Legge di Bilancio che consentiva la cessione di beni demaniali (ovvero di proprietà di tutti noi) a Stati esteri. Il viceministro all'Economia lo ha ritirato in serata spiegando che in realtà sarebbe stato riferito alla sola vendita di Palazzo Caprara a Roma, fino alla scorsa estate sede del nostro Stato Maggiore della Difesa ed ora destinato ad ospitare l'Ambasciata del Qatar.

Dobbiamo credergli?

Possiamo credere alle parole di un membro del governo il cui premier, da Ministro degli Esteri e solo una manciata di mesi fa, ha avallato in scandaloso silenzio la cessione delle nostre acque territoriali alla Francia?

Possiamo fidarci dei chiarimenti di un esponente di quel partito che, ogni volta che ha avuto responsabilità di governo, non ha esitato a mettere sul mercato i pezzi più pregiati della nostra economia? Di chi ha voluto svendere aziende come Telecom, Iri, Enel, Alitalia, Autostrade, ottenendo il bel capolavoro di far perdere a tutti noi la bellezza di 40 miliardi di euro?
Di chi non ha saputo o voluto capire che una delle chiavi del decennale benessere italiano stava nella forza e nella capacità delle sue aziende pubbliche, uniche ancora oggi in grado di crescere e svilupparsi?

Naturalmente non sono in grado di sapere se si sia trattato di una semplice svista, di un emendamento scritto male o quant'altro, ma sono sicuro che soprattutto in questa fase sia vitale mantenere la guardia più alta possibile nei confronti di qualsiasi iniziativa volta a cedere strutture, beni o prerogative nazionali, in qualunque forma ed a qualunque scopo queste iniziative si manifestino.

sabato 25 novembre 2017

Violenza sulle donne e autorazzismo, storia di uno spregevole sfruttamento


Fossi donna, oggi sarei decisamente incazzata.

A leggere alcuni giornali, a consultare alcuni siti internet di informazione, mi sentirei sfruttata, privata persino del diritto di essere riconosciuta come vittima quando sono tale, trattata come mera merce emozionale per veicolare un messaggio di propaganda che niente ha a che fare con me o con le altre donne. 

Perché?

Lo scorso 22 novembre il Ministero della Giustizia ha presentato uno studio statistico intitolato "Femminicidio in Italia - Inchiesta statistica (2010 al 2016)", a cura del direttore generale di statistica del Ministero della Giustizia, Fabio Bartolomeo.

Lo studio, consultabile qui, parte dalla lettura di oltre 400 sentenze di omicidio di donne dal 2012 al 2016 e cerca di delineare l'incidenza statistica del fenomeno noto come "femminicidio" rispetto ad altri omicidi con vittime donne.

I dati che emergono dal lavoro del Ministero sono interessanti e meritano sicuramente un'attenta riflessione, soprattutto in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Peccato che alcuni media li stiano distorcendo in modo ignobile per inculcare nella testa dei lettori un altro messaggio, che nulla ha a che fare con questo serissimo tema. Ciò che sembra premere loro è la criminalizzazione degli italiani. Un volgare attacco autorazzista che strumentalizza cinicamente per mera propaganda le tragiche sorti delle donne assassinate negli ultimi anni e porta a titoli del genere:






Bello vero? Di tutte le riflessioni e le statistiche presentate nelle sette pagine del documento, si decide arbitrariamente di porre l'enfasi su un solo dato: quanti italiani sono colpevoli di questo odioso reato. L'obiettivo biecamente cercato è instillare nella nostra memoria la facile equazione italiani = assassini di donne. Con l'aggravante che, in questo caso, il dato sbattuto in prima pagina è palesemente falsato.

Partiamo dalle percentuali fornite dal Ministero: su 355 omicidi di donne commessi nel periodo in esame e catalogati come "femminicidi", il 74,5% ha un colpevole italiano e il 25,5% straniero. Impressionante, non fosse per il dettaglio che dei due gruppi uno (gli italiani) compone il 90% circa del totale, l'altro (gli stranieri) solo il 10%.

In Italia, infatti, risiedono circa 56 milioni di italiani e 5 milioni di stranieri (fonte: Istat). I due gruppi, secondo il documento del Ministero della Giustizia, sono responsabili rispettivamente di 264 e 91 omicidi di donne, e questo significa che la propensione al "femminicidio" tra gli italiani è dello 0,0005%, mentre tra gli stranieri è dello 0,0018%.

Finché anche la matematica non sarà piegata al politicamente corretto, 18 rimane maggiore di 5, perciò la propensione al femminicidio tra gli stranieri è quasi 4 volte maggiore che tra gli italiani.

E questo, non la fuffa razzista anti italiana finita su certi titoli, è un dato vero al punto che lo stesso documento del Ministero, nel commentare la nazionalità dei colpevoli di femminicidio, correttamente sottolinea la "marcata incidenza del fenomeno tra gli stranieri presenti nel nostro paese" (pagina 4).

In questa giornata di impegno e informazione spero che le donne veramente libere facciano sentire forte la loro voce anche contro questi vergognosi tentativi di usare le loro paure, le loro sofferenze, le loro stesse morti per misera propaganda. Il cammino della libertà e dell'emancipazione non può non passare attraverso la verità.

mercoledì 15 novembre 2017

Ennesima lettera di richiamo all'Italia: "pizzino" Ue per il governo che verrà?


Tra una manciata di mesi, si sa, gli italiani saranno chiamati al voto per il rinnovo delle Camere. E le probabilità che dalle urne scaturisca una maggioranza meno supina delle ultime rispetto ai diktat dell'Unione Europea, stando ai risultati delle votazioni dallo scorso dicembre in poi, non sono trascurabili.

La ridotta unionista nostrana sta facendo di tutto per cercare di arginare la sconfitta, soprattutto con una incessante campagna mediatica che ripete all'infinito il consolidamento di una presunta "ripresa" che, pur presente in alcuni limitati dati statistici, è impalpabile nel paese reale. Il poco di allentamento di briglie che ci è stato concesso dopo le iniezioni venefiche del governo tecnico - sprecato in sterili bonus - sta per giungere a termine, e Bruxelles non sembra disposta a transigere ulteriormente sul programma di distruzione del modello economico e sociale che ha in serbo per la nostra nazione.

Occorre "fare le riforme", tutte le riforme, senza obiezioni o tentennamenti, a prescindere dalla volontà degli elettori e dal colore del nuovo esecutivo. Potrebbe essere questo il motivo per cui ieri è trapelata la notizia dell'invio da parte della Commissione Ue di una lettera di richiesta di chiarimenti riguardanti il bilancio per il 2018. La lettera, che dovrebbe arrivare il prossimo 22 novembre, chiederà impegni precisi riguardo la riduzione del deficit, ma il giudizio definitivo sarà emanato solo nel maggio 2018, quando a Palazzo Chigi dovrebbe essersi già insediato il nuovo esecutivo.

Se fino a qualche tempo fa l'atteggiamento degli eurocrati sembrava più conciliante, con concessioni di flessibilità al fine di scongiurare l'avanzata dei "populisti", ora la musica è cambiata: le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione Jyrki Katainen sul reale stato della situazione italiana non lasciano presagire niente di buono.

L'ex premier finlandese parla a nuora perché suocera intenda: il vero bersaglio non sembra tanto questo esecutivo - spudoratamente filounionista - quanto il prossimo, che potrebbe trovarsi da subito davanti ad uno scomodo bivio: effettuare una manovra aggiuntiva (nuove tasse e nuovi tagli, quindi ulteriore contrazione del Pil) per accontentare Bruxelles o incorrere nella probabile procedura di infrazione.

Le nuove richieste di Bruxelles, assieme alla pesante eredità delle clausole di salvaguardia da disinnescare (12,5 miliardi per bloccare l'aumento Iva e accise nel 2019) ed alla prossima probabilissima crisi bancaria provocata dalle nuove regole Bce sugli Npl, sono sufficienti a condizionare fin dal primo giorno l'indipendenza di qualsiasi futuro governo costringendolo su un binario obbligato. Quello di ieri è solo un avvertimento, un "pizzino" per ribadire che Roma non ha né avrà in futuro alcuna autonomia sulle proprie politiche economiche e fiscali.

C'è una sola linea da seguire, e viene decisa a Bruxelles.

giovedì 9 novembre 2017

Multa Paucis 4


Anche in questo piccolo blog, "ignorante" per definizione in quanto sovranista e populista, nel lontano 2014 era nato il sospetto che le privatizzazioni fossero, più che virtuosi e austerissimi provvedimenti per abbattere il debito pubblico, colossali fregature che sarebbero costate allo Stato (noi) più di quanto avrebbero fatto risparmiare.

Con soli 3 anni e mezzo di ritardo ci sono arrivati anche a La Repubblica.

Meglio tardi che mai?

giovedì 28 settembre 2017

L'accordo-beffa Fincantieri - STX: C'era un cantiere, un francese e un italiano...


Che il tentativo italiano di prendere il controllo dei cantieri navali ex-STX France sarebbe finito male, lo si era capito da un pezzo. Che addirittura si sarebbe risolto in barzelletta invece era meno scontato, ma l'esecutivo del Conte di Filottrano è riuscito a regalarci anche questa sorpresa.

Ricapitoliamo brevemente i fatti:

STX Offshore & Shipbuilding è un'azienda sudcoreana che si occupa di cantieri navali. In Francia, attraverso STX France Cruise SA, controlla gli importantissimi cantieri di Saint-Nazaire, storici concorrenti dell'italiana Fincantieri. Nel 2016 la holding coreana fallisce. Entra in scena Fincantieri, che presenta al tribunale fallimentare di Seul un'offerta da 80 milioni per rilevare il 66,7% di STX France.
L'offerta viene accettata.

A questo punto Fincantieri deve solo trovare l'accordo con lo Stato francese, proprietario del 33,3% dei cantieri di Saint-Nazaire. Hollande tentenna, poi a due settimane dalle elezioni concede il via libera: agli italiani andrà il 55%. Tutti contenti e lieto fine in arrivo, tanto che il presidente di Fincantieri Giampiero Massolo dichiara: "Tutto si chiuderà nel primo semestre (del 2017 ndr), se non sarà il 30 giugno sarà a luglio, ma siamo molto confidenti".
L'avesse mai detto.

Il 14 maggio Macron vince le elezioni francesi, diventa Presidente e blocca le trattative con Fincantieri. Se i coreani potevano avere più del 66% dei cantieri francesi, per l'Europeissimo Macron gli italiani devono fermarsi al massimo al 50%.

Per una volta, di fronte a questo voltafaccia improvviso, il nostro governo prima di chinare il capo punta i piedi: il 29 luglio Calenda dichiara: ""Non c'è verso che noi accettiamo il 50% [...]. E' una questione di rispetto e di dignità" e aggiunge: "Non ci muoviamo di un millimetro". Il 31 luglio parla Pinotti: "Condivido quanto hanno detto i ministri Calenda e Padoan: l'Italia non farà un passo indietro". Ancora il 3 settembre Padoan aggiunge: "Ribadiamo che sarebbe un po' strano che un’impresa, Fincantieri, che ha acquisito i due terzi della proprietà di Stx si ritrovi a essere non in maggioranza: sarebbe difficile da giustificare".
Sì, infatti.

Dopo un'estate di trattative, la montagna ha partorito il topolino: 50% a Fincantieri e 50% ai francesi, che però saranno tanto gentili da "prestare" all'azienda italiana un 1% (per 12 anni) per avere un controllo operativo che è tale solo sulla carta, visto che può essere revocato in ogni momento qualora ai francesi non piacessero le decisioni italiane. Fincantieri - che tanto per la cronaca è azienda leader in Europa nel settore navale, non l'ultima delle Snc - dovrà sottoporsi a una continua vigilanza da parte francese, con verifiche periodiche sul rispetto degli impegni.
Quando c'è la fiducia, d'altronde, c'è tutto.

Macron ha definito l'accordo "win-win", nel senso che per la Francia è una doppia vittoria: usciti con le ossa rotte dalla subordinazione ai coreani di STX, i transalpini riacquistano i loro cantieri navali attraverso i capitali e la potenza della nostra Fincantieri, socio con un controllo solo apparente sulla controllata, visto il costante ricatto della revoca dell'1% e lo spettro incombente di futura nazionalizzazione.

martedì 26 settembre 2017

Elezioni in Germania: brevi considerazioni dopo i risultati


1. Il mito della perfezione tedesca da domenica va allegramente a puttane. Nella nazione che per anni ci è stata dipinta come onestissima (anche se...), operosissima (anche se...), accoglientissima (anche se...), improvvisamente oltre 1 cittadino su 10 si è svegliato intollerante, xenofobo e potenzialmente nazista. O siamo davanti ad un'epidemia che neanche "28 giorni dopo", oppure le cose non stavano esattamente come ci venivano raccontate.

2. Poor lives matter. Se opprimi una porzione del tuo popolo togliendole un lavoro sicuro, uno stipendio dignitoso e la possibilità di pianificare il proprio futuro questa, chissà perché, tende a ribellarsi. Ed è disposta a sostenere chiunque dia voce alla propria indignazione. Il giochino di demonizzare ogni forza antisistema non dura per sempre.

3. L'immigrazione di massa crea malessere. E' inutile distorcere le più improbabili statistiche per dipingere una santa immigrazione che fa bene all'economia e "ci paga le pensioni". Quaggiù, nel mondo reale, quando vedi che in pochi anni una via, un isolato, un intero quartiere della tua città inizia a somigliare più ad Abuja che a Potsdam, hai l'impressione che una parte di ciò che sei stia venendo spazzata via per sempre. Una società ha bisogno di tempo per assorbire senza traumi nelle sue fila individui provenienti da società diverse per abitudini, cultura, storia, lingua o religione. Un ingresso troppo precipitoso o troppo numeroso crea tensioni e malcontento.
Un eschimese può trasferirsi in Madagascar ed integrarsi senza problemi, mille eschimesi possono farlo in tempi ragionevolmente brevi, ma un milione di eschimesi che sbarcano tutti insieme in Madagascar creano senza dubbio un problema sociale.

4. La mutazione genetica dei partiti socialisti europei continua a portarli alla rovina. Dall'inizio del nuovo millennio abbiamo assistito allo sfracello dei partiti socialisti spagnolo (42,6% nel 2004, 22,6 nel 2016), greco (40,6% nel 2004, 6,28% nel 2015), francese (24,7% nel 2007, 7,4% nel 2017), olandese (21,2% nel 2006, 5,7% nel 2017), ungherese (40,3% nel 2006, 19,1% nel 2014), tedesco (38,5% nel 2002, 20,5 nel 2017).
Se nasci per difendere i lavoratori dal capitale e finisci col difendere il capitale dai lavoratori, questi prima o poi se ne accorgono.

5. Il sovranismo è tutt'altro che moribondo. Dopo l'esito delle elezioni in Austria, Olanda e soprattutto Francia, la narrazione mediatica voleva le forze sovraniste (populiste, nel loro gergo) sostanzialmente sconfitte. Ignorando clamorosamente il fatto che, seppure senza vincere, i partiti sovranisti si erano rafforzati ovunque in Europa, una sostanziosa parte dell'intellighenzia continentale aveva già archiviato la questione. E invece la sveglia è arrivata proprio dal cuore dell'Impero, da quella Germania che per virtù delle "riforme" fatte con scrupolo e della guida illuminata di "Mutti" Merkel doveva essere immune al virus.
Il sovranismo pone questioni reali che interessano da vicino la vita di milioni di persone. Tapparsi occhi e orecchie, blaterare di rigurgiti nazisti, xenofobie, muri, pance et similia è il modo più inutile e infantile di rispondere a questi problemi.

sabato 23 settembre 2017

Caos Ryanair: quando si spezza la corda liberista

Il ceo di Ryanair Michael O'Leary (ImagoE)
Lunedì scorso è iniziato il piano di soppressione di oltre 2100 voli annunciato da Ryanair. Fino a fine ottobre, la compagnia aerea irlandese cancellerà una cinquantina di voli al giorno (qui la lista completa), creando disagi per circa 400mila passeggeri.

Varie le scuse addotte per giustificare questa misura senza precedenti: la principale sarebbe un errore nel calcolo delle ore di riposo del personale a seguito di un adeguamento del calendario, ma a sentire le voci interne all'azienda e l'associazione dei piloti irlandese il vero problema sta nella fuga di un gran numero di piloti verso compagnie concorrenti. Circa 700 dall'inizio dell'anno finanziario, più altri 150 dalla scorsa primavera su un totale di circa 4000.

Che ci sia malumore nelle fila dei dipendenti Ryanair non è una novità: il modello di business della compagnia irlandese è da sempre improntato al massimo risparmio sul costo del lavoro (qui, qui e qui alcuni esempi), tuttavia la situazione in questo momento sembra più esplosiva che mai. La proposta della compagnia di un bonus di 12mila euro (da pagare tra 13 mesi) in cambio della rinuncia a parte delle ferie sarebbe già stata respinta dai lavoratori, che avanzano una serie di richieste alternative.

Così, la bella favola liberista della piccola compagnia di un piccolo paese che vince la competizione con i giganti dell'aria a suon di prezzi stracciati, permettendo di viaggiare per il mondo anche a chi non ha grandi risorse a disposizione, mostra il suo lato più oscuro: lavoratori a partita iva, pagati il minimo indispensabile e secondo le regole fiscali della nazione più conveniente per l'azienda, diritti sindacali azzerati, lettere di dimissioni che impongono il silenzio sulle condizioni di lavoro e altro ancora.

Ryanair è una delle più note aziende europee ad aver adottato sistematicamente questo modello, ma di certo non l'unica: nel nuovo millennio l'intero mondo del lavoro si è spostato sempre di più verso l'abbattimento del costo dei dipendenti come mezzo per essere più competitivi sul mercato, e le varie "riforme" del settore - tutte dello stesso stampo ideologico - chieste con forza dalla Ue e supinamente varate dai governi nazionali hanno facilitato ed accelerato questo processo.

Ma il gioco al ribasso sul costo del lavoro nasconde un prezzo che in ultima istanza supera qualsiasi vantaggio: un lavoratore che dispone di poco reddito è un consumatore che tende a spendere sempre meno, e più lavoratori a basso reddito ci sono, minori saranno i consumi. Né si può aggirare il problema inducendo i consumatori a comprare sempre più "a debito": prima o poi i debiti vanno saldati, ma con redditi sempre più risicati questo diventa impossibile.
E scoppia la crisi. Come quella da cui non ci siamo ancora risollevati

lunedì 14 agosto 2017

La libertà di opinione nell'era dell'informazione: il caso James Damore

L'ingegnere licenziato per aver espresso un'opinione
James Damore è un ingegnere. Ingegnere del software, per la precisione. Magro, dinoccolato, l’aria un po’ goffa, già nell’aspetto rievoca l’archetipo del nerd à la Big Bang Theory.

E come i personaggi del celebre telefilm, Damore ha talento: laureato ad Harvard e poi ricercatore, nel 2013 a soli 24 anni ottiene un impiego presso il maggiore colosso del settore IT: Google.

James Damore ha anche delle idee, come tutti noi, sulla società in cui vive, sulla politica, sul suo luogo di lavoro. E come tutti sente il bisogno di esprimerle. Nel suo caso, utilizzando la rete interna anonima che la società mette a disposizione dei “Googlers” (così il colosso della Silicon Valley chiama i suoi dipendenti) proprio per discutere degli argomenti più disparati. Il ragazzo pubblica un documento di 10 pagine, qui in versione completa, in cui sottolinea quelli che a suo avviso sono errori commessi da Google nell’affrontare i temi dell’inclusione e della diversità.
Il documento solleva subito un vespaio di polemiche ed in qualche modo l’anonimato che proteggeva l’autore cade.

Pochi giorni dopo, James Damore viene licenziato.

Cosa aveva scritto il giovane di così grave da costargli il lavoro? Qualche anima bella, anche nostrana, ha parlato di teorie “sessiste”, “discriminatorie” o addirittura, con tanto di apposito neologismo, “tecno-misogine”. A leggere il documento però, si direbbe tutt'altro.

Il giovane si focalizza principalmente su un fenomeno che definisce Camera dell'Eco ideologica, a suo avviso particolarmente presente nel suo (ex) luogo di lavoro, che impedirebbe un dibattito veramente aperto e plurale e finirebbe per danneggiare la stessa compagnia. In breve la politica aziendale di Google tenderebbe ad incoraggiare e rafforzare un set di idee considerate sacre ("monocultura politicamente corretta", secondo la definizione di Damore), scoraggiando tramite ridicolizzazione ed umiliazione ogni punto di vista diverso da quello ufficiale. La mancanza di un vero dibattito con argomenti plurali su alcuni temi favorirebbe l'assunzione di posizioni sempre più estreme ed autoritarie.
L'esatto contrario del concetto di diversità.

Cosa c'entra il sessismo con questo? Per sostenere la sua tesi, l'ingegnere afferma che le politiche di Google per incoraggiare l'impiego femminile soffrono dello stesso errore iniziale: l'azienda parte dal presupposto che la minore rappresentanza di donne in alcuni ambiti sia dovuta esclusivamente a discriminazione di genere, e si rifiuta di considerare anche solo l'esistenza di possibili altre cause concorrenti.
Stesso discorso sul tema delle minoranze etniche: in assenza di un vero dibattito con posizioni diversificate, prevale la tesi più estrema tra quelle considerate "lecite" (la minore presenza di neri e ispanici nell'azienda deriva esclusivamente da discriminazione) e la soluzione più autoritaria (attuare politiche di discriminazione verso i bianchi nelle nuove assunzioni per avvantaggiare le altre etnie).

Non mi interessa commentare le tesi di Damore sulle differenze biologiche tra uomini e donne, ma trovo molto interessante il fatto che, nel rifiutare anche solo di controargomentare il suo documento (leggetevi la lettera inviata ai dipendenti googlers dalla "Vicepresidente per la Diversità, Integrità e Governance" di Google) e nell'immediato licenziamento, l'azienda abbia di fatto dato ragione al ragazzo. Google sembra davvero essere rinchiusa in una Camera dell'Eco ideologica per cui su alcuni temi continua a ripetere le stesse parole d'ordine e non riesce a reagire a messaggi divergenti se non con il rifiuto di dibattere, lo screditamento e la pura e semplice repressione.

Risultati della 1a pagina di Google Notizie del 14/08 con ricerca "james damore". Casualmente, lo spregiativo "sessista" associato all'ingegnere o al suo documento ricorre con una certa frequenza...
A mio avviso questo pregiudizio, che parrebbe insito nell'azienda che monopolizza di fatto il traffico delle ricerche su internet, pone gravi questioni di pluralismo dell'informazione e, in definitiva, di democrazia. Google infatti ha il potere di gestire l'accesso all'informazione: i suoi algoritmi setacciano l'immensità di contenuti presente nel web e restituiscono quelli che - secondo Google stessa - sono i più adatti a rispondere a determinate richieste degli utenti, ordinandoli secondo criteri di rilevanza che, ancora una volta, sono decisi da Google.

Se una minoranza di utenti di internet è attrezzata culturalmente per approfondire le proprie ricerche e risalire a fonti variegate e plurali, la stragrande maggioranza si affida a ciò che Google decide in sua vece (è risaputo che circa il 90% delle ricerche effettuate si ferma solo ai risultati presenti in prima pagina). Ѐ attraverso le lenti di Google che moltissime persone si formano un'opinione sui temi più svariati. Se l'azienda fosse viziata già nella propria struttura interna dalla Camera dell'eco ideologica, come potrebbe essere in grado di garantire imparzialità e completezza nei risultati che fornisce agli utenti?

Cosa garantisce i milioni di persone che quotidianamente utilizzano il motore di ricerca che ciò che appare sui loro schermi sia davvero una panoramica oggettiva sul tema che interessa loro, e non piuttosto una visione parziale e distorta dagli stessi pregiudizi dello strumento che stanno usando?

giovedì 3 agosto 2017

Fincantieri - STX, ovvero quel gusto tutto italiano di prendere sberle




Si fa un gran parlare in questi giorni della vicenda Fincantieri / STX, ultima puntata dell’eterno rapporto amore-odio tra noi e la Francia. Anche questa volta, come già in passato, il tentativo di un’azienda italiana di espandersi oltralpe viene bloccato da un muro di protezionismo alzato dallo stesso Stato francese, alla faccia degli accordi già presi e del presunto "primato del libero mercato". C’è voluta più di qualche musata, ma sembra che finalmente anche i nostri governanti stiano iniziando ad ammettere che quella francese è una vera strategia mirata al controllo di alcuni gangli fondamentali della nostra economia, bloccando qualsiasi significativa azione inversa.

Da vera potenza coloniale, la Francia non esita a prendersi tutto lo spazio che ritiene necessario (vedi il caso Libia) a danno dei nostri interessi, ma rigetta con malcelato sdegno ogni nostra ambizione sui propri asset.

Naturale: non si è mai vista una colonia che reclami il controllo dei beni del suo colonizzatore.

Ma non è solo nei confronti della Francia che il nostro paese subisce umiliazioni: questo editoriale di De Bortoli richiama, per i motivi sbagliati, diversi esempi giusti di una triste tradizione che ci vede chinare il capo con straordinaria frequenza quando i nostri interessi si scontrano con quelli altrui. Su questo blog la cosa era già stata affrontata qui e qui. E lo stesso copione si ripete anche in ambito diplomatico: le contorte, esasperanti vicende dei marò e di Regeni sono piene di bocconi amari che il Belpaese ha dovuto inghiottire.

L'affaire Fincantieri però sembra segnare un cambiamento, dovuto forse al periodo pre-elettorale che fa gonfiare anche i petti più concavi: d'improvviso si è tornati a parlare di interesse nazionale. Anche coloro che fino a poche ore fa rabbrividivano al solo sentire la parola Nazione, ora sussurrano questa formuletta a mezza bocca, quasi fosse un'amara medicina da mandar giù a forza, in vista delle prossime votazioni. Too little, too late, amici miei; la dignità della Nazione non è un bottone da attivare a piacere, ma qualcosa che va costruito, sostenuto e difeso con costanza.

Dopo l'inglorioso tramonto della Prima Repubblica, nata zoppa dalla sconfitta della seconda guerra mondiale ma comunque in grado di giocare un ruolo almeno nei quadranti di immediato interesse strategico, è salita al potere una classe dirigente totalmente impreparata (nella migliore delle ipotesi) e intrisa di concetti utopistici e fantasie internazionaliste. Si è creduto che fosse possibile consegnare le Nazioni alla pattumiera della Storia per inseguire improbabili sogni di unione continentale, senza accorgersi che mentre noi - e solo noi - interpretavamo il progetto di Unione come genuinamente paritario gli altri, ciascuno secondo le proprie capacità, lo interpretavano come mezzo per consolidare i propri interessi particolari.

Per la Germania si è trattato di accelerare la propria vocazione mercantilista sfruttando una moneta strutturalmente più debole del marco per aumentare la competitività sui mercati internazionali, mettendo nello stesso tempo solide briglie al principale rivale europeo (noi), per la Francia di un tentativo - fallito - di tenere a freno la Germania, per i paesi dell'Est di un mezzo per garantirsi protezione e indipendenza dal temuto vicino russo.

Per noi? Il nulla. Tra cattivi consiglieri, interessi personali, rigurgiti ideologici, la nostra classe dirigente si è seduta al tavolo europeo senza la più pallida idea di cosa fare, senza uno straccio non tanto di strategia, ma neppure di tattica di breve periodo. Afflitta da un mastodontico complesso d'inferiorità, ha accettato senza fiatare le richieste più inique pur di dimostrare ai vicini, che tutt'ora percepisce come ontologicamente superiori, di aver espiato fantomatiche colpe.

Ora che alcuni nodi stanno iniziando a venire al pettine, ora che l'atteggiamento prepotente o anche solo schiettamente egoistico delle altre nazioni ha iniziato a danneggiare in modo grave e innegabile il nostro benessere e la nostra sicurezza, non può essere la stessa classe dirigente che ha rifiutato ostinatamente di proteggerci ad ergersi a difensore della Patria.

A maggior ragione se questa insolita presa di posizione arriva a una manciata di mesi da una scadenza elettorale che potrebbe segnare una dura batosta per l'attuale maggioranza.

venerdì 7 luglio 2017

La fantaverità dell'Inps sugli immigrati



Il presidente dell'INPS Boeri dev'essere un grande appassionato di fantascienza.

Almeno così si deduce leggendo le dichiarazioni rilasciate in occasione della relazione di accompagnamento alla "Relazione Annuale" dell'ente presso Montecitorio. Come la fantascienza lega una base di realtà (un fattore scientifico o tecnologico) ad una narrazione di fantasia, così la relazione presentata a Montecitorio, nella parte in cui si occupa del contributo dell'immigrazione ai conti previdenziali, parte da una base reale per approdare a conclusioni che con la realtà hanno poco a che fare. Il risultato è una "fantaverità" utile forse per rafforzare uno spin già presente nell'informazione, ma che nulla aggiunge al dibattito concreto sul tema dell'immigrazione.

Boeri ci dice che: "La chiusura delle frontiere agli extracomunitari [da oggi fino al 2040 ndr] significherebbe, a prezzi costanti 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate agli immigrati con un saldo netto negativo di 38 miliardi per l’Inps".

Ovvero: se nei prossimi 22 anni non entrassero più extracomunitari in Italia l'Inps avrebbe un buco nei propri conti di 38 miliardi.
E se mia nonna avesse avuto le ruote...

La simulazione presentata dall'Inps non ha alcuna utilità pratica perché:

1. Parte da un assunto che nessuna forza politica, neppure la più contraria all'immigrazione, auspica (azzeramento degli ingressi di stranieri in Italia);
2. Dà per scontato che il comportamento degli stranieri rimanga identico nell'arco di oltre venti anni (arrivo di individui per lo più giovani, che lavorano e pagano i contributi ma poi escono dall'Italia "regalando" all'Inps i contributi maturati);
3. Si spinge in una previsione di lunghissimo periodo (22 anni) assumendo che la situazione sociale, demografica, economica e politica italiana rimanga invariata per tutto il tempo.

La base di realtà da cui muove Boeri è incontestabile: gli stranieri che lavorano regolarmente in Italia pagano i contributi previdenziali. E ci mancherebbe altro. In questo momento, essendo l'immigrazione di massa un fenomeno recentissimo nella storia d'Italia, i lavoratori regolari stranieri versano contributi ma ricevono molto poco dall'Inps, dato che nessuno o quasi di loro ha maturato le condizioni per avere la pensione. Quindi l'Inps, in questo momento, ci guadagna.

Peccato che il gioco non potrà durare a lungo, e non è neppure giusto che continui. Prima o poi i lavoratori stranieri invecchieranno e vorranno la loro pensione, e i guadagni accumulati dall'Inps andranno a farsi benedire. O Boeri ci sta dicendo di accogliere sempre più lavoratori stranieri, farli lavorare qualche anno e rispedirli a casa prima che maturino i requisiti pensionistici, per avere un guadagno costante? Un sistema del genere non avrebbe un vago sapore di sfruttamento?

Inoltre, per far lavorare qualcuno - incredibile ma vero - serve che ci sia lavoro. E l'Italia non ne ha poi molto da offrire, come testimonia l'oltre mezzo milione di italiani emigrati negli ultimi 8 anni. L'aumento di persone in cerca occupazione, nel momento in cui i posti disponibili sono sempre meno, comporta un abbassamento degli stipendi (svalutazione del lavoro), che è la causa principale da un lato dell'esodo di italiani all'estero, dall'altro del fatto che "ci sono lavori che gli italiani non vogliono più fare". Ma gli stranieri si, perché un lavoro che per gli standard italiani è mal pagato, può ancora essere allettante per uno straniero che viene da una situazione ancora peggiore. Vogliamo un futuro con stipendi dignitosi e garanzie sociali adeguate, o un futuro fatto di povertà, sussidi pubblici di sopravvivenza, disoccupazione galoppante e lavori sottopagati?

L'Inps sembra propendere per la seconda ipotesi, visto che parallelamente al suggerimento di importare quote sempre maggiori di manodopera per calmierare artificialmente il costo del lavoro, sostiene anche l'altro strumento tipico delle società neoliberiste: reddito d'inclusione e salario minimo, necessari per tenere a freno il malcontento dei lavoratori privi delle tradizionali tutele sociali, previste e garantite dalla nostra Costituzione (anch'essa ormai ridotta a funzionare part-time).

sabato 17 giugno 2017

Verso lo Ius Soli: fotografia di un disastro annunciato

Fonte: Wikipedia

Dopo due anni di limbo, improvvisamente da qualche giorno il cosiddetto "Ius Soli" è tornato in cima alle priorità nazionali, scavalcando di slancio crisi economica, disoccupazione, criminalità e qualsiasi altro dei mille problemi che affliggono questa sfortunata terra.

In Senato è stata garantita una corsia preferenziale a questo disegno di legge, con l'obiettivo di un'approvazione il più rapida possibile. "Anche attraverso il voto di fiducia" si è spinto a dire qualche pasdaran governativo. Immediato e tetragono lo schieramento mediatico a supporto dell'ennesima presunta campagna "di civiltà", per "garantire dei diritti" e "favorire l'integrazione".

Peccato che con civiltà, diritti e integrazione lo Ius Soli non c'entri nulla.
Zero.
Nada.

Lo Ius Soli è solo un tipo di normativa per regolare l'appartenenza di un individuo ad una determinata comunità nazionale, alternativo all'altro sistema, quello dello Ius Sanguinis attualmente in vigore in Italia. Alternativo non vuol dire che comporti un qualche tipo di progresso o maggiore civiltà. Alternativo vuol dire alternativo.

La cartina qui sopra evidenzia l'adozione dello Ius Soli nel mondo: la forma più estesa è in uso praticamente solo nel continente americano, mentre quella "temperata" riguarda una manciata di stati. La grande maggioranza delle nazioni sulla terra (160) adotta lo Ius Sanguinis per regolare la cittadinanza. Paesi che siamo abituati a considerare avanzatissimi e supercivilissimi come Giappone, Olanda e tutti i paesi scandinavi adottano lo Ius Sanguinis. Paesi che siamo abituati a considerare arretrati e meno civili del nostro come Tanzania, Pakistan e Nicaragua adottano lo Ius Soli.

Tentare di spacciare l'adozione dello Ius Soli come "misura di civiltà" non è semplicemente truffaldino.
E' demenziale.

Eliminato l'argomento "civiltà", si ricorre spesso a quello dei "diritti" per sostenere la necessità dello Ius Soli.
Ma questa misura non c'entra nulla nemmeno con i diritti.

In Italia praticamente tutti i diritti garantiti ai cittadini nati da italiani sono garantiti anche agli stranieri:
- I cittadini stranieri hanno accesso all'istruzione - gratuita - come gli italiani;
- I cittadini stranieri hanno accesso alle cure sanitarie - anche gratuite - come gli italiani;
- I cittadini stranieri possono aprire aziende e attività come gli italiani (a volte anche più facilmente);
- I cittadini stranieri possono acquistare casa come gli italiani.

L'unico diritto che differenzia cittadini italiani e stranieri in Italia è quello di voto, che non ha nulla a che fare né con lo Ius Soli né con lo "Ius Culturae", perché riguarda solo i maggiorenni. E comunque gli stranieri nati in Italia o che vivono stabilmente in Italia possono ottenere anche quello facendo richiesta di naturalizzazione.
A conti fatti, non c'è alcun diritto garantito ai cittadini italiani che venga negato agli stranieri.

Tentare di spacciare l'adozione dello Ius Soli come "conquista di diritti" non è semplicemente truffaldino.
E' demenziale.

L'ultima giustificazione che viene data per sostenere lo Ius Soli è che "favorisce l'integrazione".
Ma, spiace dirlo, anche questo è falso.

Il processo di integrazione prevede il coinvolgimento attivo di due parti: lo straniero che deve integrarsi e la società che decide (perché di scelta si tratta, non di obbligo) di accoglierlo. Dimostrato che lo stato italiano già ora è totalmente bendisposto verso gli stranieri che intendano integrarsi, garantendo loro maggiori diritti rispetto a moltissimi altri paesi, se manca la volontà d'integrazione da parte del cittadino straniero, l'integrazione semplicemente non è possibile.

Regalare passaporti come fossero magliette a un concerto non sposta di un millimetro il tasso di integrazione, perché chi vuole integrarsi nella società italiana può farlo già oggi, mentre chi non è interessato rimarrà avulso dalla nostra società anche con un passaporto italiano in tasca.

Non dovrebbe essere neppure necessario ricorrere a questo esempio per chiarire il punto, ma vista l'ottusità che c'è in giro vale la pena ricordarlo: i terroristi di Charlie Hebdo avevano un passaporto francese in tasca, così come i macellai del Bataclan avevano passaporto francese e belga, e il boia di Manchester ne aveva uno britannico.
Questo fatto viene perfino sventolato regolarmente in faccia a chi avanza dubbi sulle recenti immigrazioni di massa: "Guardate che quelli erano francesi / inglesi / nazionalitàeuropeaqualsiasi, mica immigrati!"
Ecco, "quelli" avevano dei passaporti francesi, inglesi, belgi, ma NON erano francesi né belgi né inglesi, perché avevano rifiutato di integrarsi. Anche regalando loro un passaporto francese, inglese o belga all'anno, facendoli votare a 6 anni, donando loro casa, macchina e stipendio, non sarebbero diventati francesi né inglesi né belgi perché non volevano. E non esiste al mondo legge in grado di costringere una persona ad integrarsi in una società di cui non vuole far parte.

Tentare di spacciare l'adozione dello Ius Soli come "processo che favorisce l'integrazione" non è semplicemente truffaldino.
E' demenziale.

Ma allora perché tutta questa foga per un provvedimento che, all'atto pratico, non dà agli stranieri in Italia nulla più di quanto già possano avere?

Perché questa legge qualcosa la cambia: innesca un processo che disgrega l'omogeneità nazionale in una miriade di appartenenze e identità diverse e in conflitto perenne tra loro. Chi sta cercando di imporre lo Ius Soli in tutta Europa (perché al solito il nostro parlamento non fa altro che recepire direttive sovranazionali) non è minimamente interessato all'integrazione ordinata, consapevole e ponderata dei nuovi arrivati all'interno delle società ospiti, ma punta esplicitamente a rompere la coesione sociale inserendo elementi sempre più forti di conflitto etnico, religioso e culturale nelle società, per frammentare all'origine qualsiasi tentativo di ribellione al processo di espansione del divario sociale in atto.

Lo Stato Nazionale è l'obiettivo da colpire, in quanto unico ordinamento nella Storia recente che ha saputo favorire una significativa redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei ceti più poveri. Per dirla in altri termini, lo Stato Nazionale è l'unico campo di battaglia in cui i ceti subordinati hanno qualche speranza di difendersi da quello dominante.

Se si uccidono le Nazioni trasformandole in porzioni del globo dalle caratteristiche indistinte, in cui convivono forzatamente identità diverse e incompatibili, si frantumano parallelamente anche i loro ceti più deboli. Non esiste più una comunità nazionale che condivide un percorso storico unitario, ma miriadi di comunità separate ciascuna impegnata a preservare se stessa. Gli abitanti delle banlieu parigine, o di Manor Park a Londra, o di Neukölln a Berlino sono inevitabilmente più interessati a difendere il proprio microcosmo di tradizioni, usi e costumi di provenienza che a fare fronte comune con gli operai o i disoccupati autoctoni con cui condividono una cittadinanza che è nulla più di un pezzo di carta.

In una situazione del genere il ceto dominante, l'Ancien Régime 2.0 che non riconosce alcuna cittadinanza se non quella di classe, non può che vincere.

Per approfondire:

- Attuale legge sulla cittadinanza (Legge 5 Febbraio 1992, n.91)

- La proposta di nuova legge sulla cittadinanza

martedì 13 giugno 2017

Intanto in Germania... (ma il paese della corruzione siamo noi)

Fonte: de.toonpool.com

La più grande frode fiscale nella storia della Germania dal dopoguerra ad oggi.

La tocca piano il settimanale Die Zeit quando deve parlare dell'immenso bubbone di illegalità che sta emergendo nel paese. Lo scandalo Cum-Ex, come è stato ribattezzato, coinvolge almeno 40 banche tedesche, più un centinaio di istituti di credito internazionali, che avrebbero ottenuto dallo Stato rimborsi fiscali non dovuti per un totale che sfiora i 32 MILIARDI di euro.

Due i meccanismi alla base della truffa: il "Cum-Ex" ruota attorno all'acquisto di azioni con (cum) dividendi ed alla vendita di azioni senza (ex) dividendi nel periodo a ridosso del pagamento degli stessi, per ottenere attraverso cavilli contabili rimborsi fiscali multipli a fronte di un singolo pagamento di tasse. Il meccanismo "Cum-Cum" invece prevede il trasferimento short-term o il prestito di azioni di proprietà straniera a banche tedesche, le quali richiedevano un rimborso fiscale sui dividendi allo Stato, cosa che non sarebbe stata possibile agli investitori esteri.

Le prime denunce sui rischi di questi meccanismi in Germania risalgono al 1992, ma sono rimaste inascoltate almeno fino al 2012, quando il Cum-Ex è stato dichiarato formalmente illegale; per il Cum-Cum si è dovuto attendere il 2016. Ora la magistratura tedesca sta indagando sulle transazioni effettuate dal 2001 ipotizzando il reato di evasione fiscale. Secondo le stime, almeno 24,6 miliardi di euro sarebbero stati frodati con il Cum-Cum, e 7,2 miliardi con il Cum-Ex.

Davanti a questo enorme flusso di denaro che per oltre 15 anni è sparito dalle casse pubbliche tedesche, stupisce che nessuna autorità abbia pensato di iniziare delle indagini, innescate solo dalla caparbietà di una giovane assistente amministrativa dell'ufficio delle imposte, che ha subito anche delle minacce per il suo lavoro.

Lo scandalo sta avendo un notevole impatto visto che coinvolge istituti di credito come UniCredit/HypoVereinsbank, Commerzbank, WestLB, HSH-Nordbank ed ha già portato al fallimento della branca europea della canadese Maple-Bank. Secondo l'esperto di criminalità commerciale William Allison "si può dire che virtualmente tutte le principali banche tedesche sono state implicate in un modo o nell'altro".

Dunque la Germania sta scoprendo la più grande frode commerciale della sua storia. Sicuramente i media italiani, sempre attentissimi al tema frodi e corruzione, staranno dando adeguata copertura alla notizia, giusto?

Sbagliato.

A parte un articolo sul Fatto Quotidiano di domenica, e uno nella sezione Economia & Finanza de La Repubblica risalente al 2013, le maggiori testate nazionali hanno semplicemente ignorato questa vicenda. Silenzio totale anche sul fronte delle testate giornalistiche televisive.

Non sia mai che venga disturbata la narrazione ufficiale che vuole noi inevitabilmente corrotti, inetti, truffatori, e gli übermensch tedeschi sempre virtuosi, onesti e incorruttibili.

Fonti:



martedì 6 giugno 2017

C'è la fila per comprare Alitalia. Ma non era un'azienda bollita?


Oggi i commissari nominati dal governo per gestire la svendita ristrutturazione e la cessione di Alitalia si sono ritrovati dal notaio per conoscere le manifestazioni di interesse a rilevare la nostra ex-compagnia di bandiera. Con loro stessa sorpresa, hanno contato ben 32 soggetti interessati con varie modalità all'acquisto del vettore tricolore.

Per il presidente dell'Enac Vito Riggio si tratta di un "risultato oltre le aspettative". Per chi si rifiuta di guardare la realtà attraverso le lenti distorte dell'autorazzismo invece, la notizia non stupisce granché.

Come già evidenziato in un articolo precedente, i problemi dell'ultima gestione Alitalia erano dovuti a scelte dirigenziali sbagliatissime soprattutto sui fronti di manutenzione, handling e assistenza passeggeri, carburante e locazioni. Ambiti specifici su cui è possibile intervenire. La compagnia è stata senz'altro gestita male, ma non è quel "carrozzone" fatto di stipendi di lusso, dipendenti parcheggiati a suon di raccomandazioni e sprechi senza fine che si è troppo a lungo dipinto. Un ritratto che forse era vero 30 o 40 anni fa, non di certo ora.

A fronte di una situazione difficile ma non irrisolvibile, Alitalia ha molto da offrire: l'Italia è uno dei maggiori mercati d'Europa per il trasporto aereo - in aumento dal 2014 di circa il 4% annuo, la compagnia dispone di numerosi slot di assoluto prestigio (nonostante la "curiosa" vicenda di Londra Heathrow) e di personale talmente qualificato da essere finito nelle mire di diverse compagnie straniere, cinesi in testa. Tutti elementi che la stampa qualunquista nostrana ignora, ma i 32 soggetti interessati all'acquisto della compagnia hanno ben chiari.

Nel caso di Alitalia si è puntato i riflettori sui costi fin qui sostenuti dallo Stato (7,4 miliardi di euro in 43 anni, la metà di quanto regaliamo al Fondo salva-Stati OGNI ANNO), omettendo di dire quanto costerebbe per le nostre tasche - in termini di ammortizzatori sociali, distruzione dell'indotto e mancate entrate fiscali - sia la cessione a compagnie straniere, sia lo "spezzatino", sia il fallimento della compagnia.

Ora, constatato che il problema dell'Alitalia non è strutturale ma manageriale, che la compagnia ha un valore superiore a quello contingente come attestato dall'alto numero di potenziali acquirenti, che la stessa non svolge solo un servizio commerciale ma garantisce anche servizi fondamentali per la nazione, che lo Stato ha già investito diversi miliardi per favorire privatizzazioni fallimentari, che l'attuale governo ha già impegnato 600 milioni di denaro pubblico (attraverso un prestito) per le "pulizie" in vista dell'ennesima cessione,

Non sarebbe opportuno chiudere il cerchio e riprendere il controllo pubblico della nostra compagnia nazionale?

Lo so, dopo decenni di bombardamento liberista per molti le parole "controllo pubblico" suonano come una bestemmia, qualcosa di cui non si può e non si deve parlare, eppure i dati Istat ci dicono che ogni anno le partecipate pubbliche portano nelle casse dello Stato circa 1 miliardo di euro di utili, e che la percentuale di aziende pubbliche in perdita è di 7,5 punti più bassa rispetto alle corrispettive aziende private (27,6% tra le pubbliche, 35,1% tra le private).
Ciò dimostra che è assolutamente possibile per lo Stato controllare aziende e farle funzionare efficacemente per contribuire al bilancio nazionale. E' ciò che è accaduto per 70 anni ed ha permesso all'Italia di diventare un gigante economico mondiale.

E' ciò che ancora accade tutti i giorni, nonostante tutto.

venerdì 2 giugno 2017

La festa è finita


Un involucro svuotato.

E' stata questa la sensazione prevalente nell'assistere oggi alla cerimonia per la Festa della Repubblica. Una festa mai particolarmente amata dalla nostra classe dirigente, tanto che per 24 anni si svolse alla chetichella ogni prima domenica di giugno, senza un vero giorno festivo, per non disturbare troppo.

Quando venne ripristinata nella sua forma completa, fu per mano di uno degli artefici della desovranizzazione, quel Ciampi che guidò il riaggancio della lira al sistema Sme e rese possibile l'ingresso nella trappola dell'euro, di cui stiamo ancora pagando le conseguenze.

Un inusuale attaccamento al più tradizionale immaginario patriottico, quello di Ciampi, quasi un'inconscia compensazione per l'incessante, sotterraneo lavoro di smantellamento dei gangli vitali dell'indipendenza nazionale, a cominciare da quello monetario.

Da allora la festa del 2 giugno ha mantenuto la forma: la parata su via dei Fori Imperiali, l'immenso tricolore a decorare il Colosseo, la partecipazione popolare, ma ha perso via via la sostanza di momento di autocoscienza della Nazione e occasione per riconoscerci come popolo in un comune e specifico percorso storico che ci lega a tutte le generazioni passate e a quelle future. Nella nostra festa nazionale oggi non c'è più la Nazione e non potrebbe che essere così, visto che tutte le principali figure istituzionali attualmente in carica sostengono fermamente la diluizione della nostra specificità all'interno di entità più vaste e dai discutibili connotati democratici.

Sia la festa della Repubblica che la Repubblica stessa sono - ormai da tempo - ostaggio di chi le cancellerebbe volentieri.

E' così per il Presidente della Repubblica, ansioso di "completare la costruzione europea", è così per il Presidente del Consiglio, che sogna "gli Stati Uniti d'Europa". Per non parlare dei Presidenti di Camera e Senato, l'una tanto attaccata all'indipendenza nazionale da aver letteralmente lucchettato l'Italia al ceppo dell'Unione per poi buttare le chiavi in un fiume, l'altro instancabile sostenitore della causa unionista al punto da attribuirle successi e meriti inesistenti.

Non è dunque una sorpresa se proprio oggi giunge, per bocca di un Ministro della Repubblica, l'appello a compiere l'ennesimo passo verso la negazione del patto fondativo della nostra comunità nazionale: il passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli, la riduzione della nazionalità a semplice atto burocratico, il valore della cittadinanza, con il peso di doveri e responsabilità che comporta, ridotto a una notarella qualsiasi sulla carta d'identità.

La macchina mondialista funziona a pieno regime, ed i terminali italiani hanno tutta l'intenzione di accelerare il più possibile per portare la nazione oltre la soglia di non ritorno prima che la maggioranza dei cittadini si renda conto del danno subito.
La Repubblica non è mai stata così in pericolo dalla sua nascita come in questi anni.

giovedì 25 maggio 2017

Le parole di Morrissey sulla strage di Manchester rompono la liturgia del terrore


E' difficile trovare l'equilibrio necessario a scrivere di un argomento, quando quell'argomento è la strage deliberata di ragazzini. Il massacro feroce, la volontà di provocare dolore, disperazione, annientamento.

Il Terrore.

Eppure ancora una volta il mostro ha invaso la nostra vita, costringendoci a fissarlo negli occhi attraverso lo schermo di un cellulare, di un computer, di un televisore, sulle pagine dei giornali. E lunedì notte si è fatto carnefice di bambini e adolescenti, radunati per condividere un momento di divertimento al concerto di una cantante pop loro beniamina e quasi coetanea.

Attorno ad ogni strage compiuta nel cuore delle città d'Europa nel nuovo millennio sembra essersi creato un macabro protocollo, una vera liturgia del terrore: prima c'è lo strazio di corpi macellati da bombe, squartati da tir o crivellati da colpi di mitra, poi il torrente di dichiarazioni ufficiali che sembrano ciclostilate per quanto si somigliano, impegni tanto solenni quanto vaghi, indignazioni e cordogli impeccabili nella forma e vuoti nella sostanza; infine arriva il diluvio di analisi che triturano l'evento, ne mescolano le cause, ne sterilizzano il senso e ne stravolgono l'essenza, finché il tutto viene sepolto ("Tout est pardonné") dalla marea delle notizie più fresche, in attesa del nuovo massacro.

Con una presa di posizione decisamente lontana dal politicamente corretto, l'ex-leader degli Smiths Morrissey ha voluto strappare il velo di questa liturgia, sottolineando come le parole delle autorità britanniche, pronunciate al riparo di apparati di sicurezza straordinari, suonino prive di significato alle orecchie delle persone comuni, sempre più spesso le uniche vittime del terrore.

"Theresa May - scrive Moz - dice che questi attacchi 'non ci spezzeranno', ma la sua stessa vita è al sicuro di una bolla a prova di proiettile, e chiaramente lei non dovrà andare ad identificare nessun ragazzino negli obitori di Manchester oggi".

Questo è uno dei punti principali su cui bisognerebbe riflettere: è possibile, davanti ad un terrorismo che ha scelto come unico obiettivo delle sue mattanze le persone comuni, meglio se indifese come i bambini, accontentarsi delle parole di routine di chi vive lontanissimo dal problema? Di chi dispone di una "bolla a prova di proiettile"? E le potenziali vittime del terrore possono accontentarsi di generiche parole di dolore e condanna, o devono iniziare a pretendere reazioni chiare e precise dai propri governanti?

Ci viene detto che questa condizione di insicurezza e paura costante è destinata a durare decenni, ma che noi non dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. Come se il terrorismo fosse qualcosa al di fuori della nostra capacità d'intervento, qualcosa che non si può combattere, ma solo subire sperando che faccia meno danni possibili. Un fenomeno alla pari di terremoti e uragani.

Eppure non è così. Le vite di Georgina, Saffie, Lisa, John, di tutte le vittime di Manchester e delle altre 600 in tutta Europa dal 2004 ad oggi non sono state stroncate da terremoti né da uragani, ma dalla mano di uomini invasati da un pensiero che è insieme ideologia politica e religione. Un pensiero che si annida nel mondo islamico sunnita in Medio Oriente e in Europa e non solo prevede, ma incoraggia come metodo di lotta l'omicidio di cristiani, induisti, atei e persino islamici di correnti diverse. Il pensiero della Jihad.

I popoli nel mirino del jihadismo hanno il sacrosanto diritto di non essere presi in giro dai loro governanti con frasi di circostanza e inviti a comportarsi come se nulla fosse successo. Hanno il diritto di chiedere come mai dopo oltre 7 anni di conflitto le maggiori potenze militari del mondo sono ancora lontanissime dal piegare lo Stato Islamico, come mai jihadisti già noti ai servizi segreti girano tranquillamente per l'Europa dopo aver viaggiato in Libia, Siria o in altri territori sotto il controllo jihadista, come mai ancora si insiste a ripetere la bufala dei cani sciolti che si "radicalizzano" all'improvviso, come prendessero una strana malattia, e si minimizza la rete di connivenze e sostegni che emerge dopo ogni attentato, come mai si è rapidissimi nell'imporre sanzioni economiche e blocchi commerciali per i motivi più futili, ma non si prende nessuna misura contro lo stato più sospettato di foraggiare l'Is ed il terrorismo in Europa.

Al jihadismo non si può rispondere disegnando per terra con i gessetti, né inondando i social network di bandiere delle nazioni colpite, né con sit-in o concerti. Questi gesti sono buoni per riempire il minutaggio dei telegiornali, magari anche per alleviare temporaneamente il dolore e lo smarrimento, ma non hanno protetto Georgina, Saffie, Lisa, John e gli altri ragazzini di Manchester e non proteggeranno neppure le prossime vittime del terrore.