giovedì 22 marzo 2018

Sostenere il Made in Italy è razzismo? Il caso Tirrenia - Moby


L'ultima crociata scema degli autorazzisti nostrani è stata proclamata alcuni giorni fa contro le compagnie di navigazione Moby e Tirrenia, del gruppo Onorato Armatori.

La colpa? Una campagna pubblicitaria in cui si sottolinea che il personale delle due compagnie italiane è in larghissima parte (circa il 94%) italiano.


Il testo centrale della pubblicità incriminata recita: “navigare italiano non è uno slogan, è un impegno: significa avere 5.000 lavoratori italiani altamente qualificati, per offrirvi un servizio sempre impeccabile. Significa riconoscere il valore e la professionalità dei nostri connazionali e portare lavoro e fiducia nei nostri porti. Significa darvi solo il meglio per trasformare il vostro viaggio in una vacanza”.
Decisamente troppo per le delicate orecchie degli autorazzisti!

E infatti subito è partito il canonico j'accuse che, oltre al solito gruppetto di intellettuali che avrebbero voluto troppissimo nascere a New York o almeno a London, ma son costretti a condividere i natali con noi bifolchi indigeni del Bel paese, ha avuto un qualche seguito anche sui social.

Da par suo, parte della stampa mainstream ancora stordita dalla legnata elettorale si è subito lanciata sulla notizia, parlando con incredibile leggerezza di "sciovinismo", "messaggio xenofobo" e "discriminazione etnica".

Pare che per la causa si sia mosso addirittura l'Unar, il mitologico Ufficio Anti Discriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio, che deve evidentemente aver ormai risolto quei problemini in cui incappò qualche tempo fa.

Questa storia in realtà è molto più complessa di come viene raccontata, e la campagna pubblicitaria del gruppo Onorato è solo l'ultimo atto di un crescendo che inizia venti anni fa e intreccia leggi, concorrenza tra armatori, concorrenza al ribasso tra lavoratori, globalizzazione e sindacati.
Un riassunto esauriente, in cinque parti, è stato pubblicato la scorsa settimana sul sito Stylo24 a firma di Giancarlo Tommasone:
1a parte: Tirrenia schiera la flotta «tricolore» contro Grimaldi
2a parte: Un mare di soldi (ai sindacati) per la battaglia navale Tirrenia - Grimaldi
3a parte: Formazione e reclutamento dei marittimi, l'asse sindacati - manning
4a parte: Il mare? Ormai non bagna più la città di Torre del Greco
5a parte: Onorato predica il «navigare italiano» e poi costruisce le navi in Cina

Lasciamo per un attimo da parte la vicenda specifica, che a mio avviso si inquadra perfettamente nel contesto della guerra tra poveri innescata dalle politiche neoliberiste dominanti a partire dagli anni 90 sotto la bandiera della globalizzazione, e concentriamoci sulla reazione dei benpensanti "antirazzisti".

Il loro incontenibile sdegno naturalmente non riguarda lo sfruttamento economico dei marittimi di paesi meno sviluppati su navi di paesi sviluppati, né è infervorato dalle difficoltà dei lavoratori italiani che si sono visti sottrarre il posto di lavoro non per demerito, ma solo per l'irrompere sulla scena di lavoratori dalla paga assai inferiore. No, il delicato animo dei nostri eroi si inceppa su questo ragionamento: "Un lavoratore italiano vale quanto uno straniero, QUINDI questa pubblicità è razzista".


Ora: Supponiamo che stasera vi vada del sushi, e che dobbiate scegliere tra due ristoranti in cui non siete mai stati prima. Sapete solo che in uno i cuochi sono giapponesi, nell'altro molisani. Dove è più probabile che troviate il sushi migliore?
Finché non andrete a provare, sarete orientati verso il ristorante con i cuochi giapponesi perché il sushi è un prodotto tipico del Sol Levante, un prodotto Made in Japan, e si suppone che in un ristorante con personale giapponese sia più probabile trovarne di qualità.
Magari sbagliate, magari i cuochi molisani lo sanno preparare come neanche allo Tsukiji shijō, ma il fattore nazionalità sarà comunque determinante nella vostra decisione, perché dal ristorante con i cuochi giapponesi vi attendete non solo una cucina più esperta, ma anche un contesto (quindi un'esperienza) più fedele all'originale.

In Italia siamo afflitti da un dilagante autolesionismo per cui tendiamo a sminuire le nostre capacità ed a sottovalutare l'opinione che all'estero hanno di noi, eppure il resto del mondo dà eccome valore a ciò che è italiano, tanto che il marchio Made in Italy è stimato valere oltre 1500 miliardi di dollari ed è attualmente al settimo posto come reputazione tra tutti i marchi d'indicazione nazionale, sopra colossi quali Giappone, Stati Uniti e Francia (Fonte: Made-In-Country Index).

Dobbiamo credere che i milioni di persone nel mondo che cercano ed apprezzano il Made in Italy siano razzisti? Che la loro preferenza per i nostri prodotti, il nostro stile, il nostro modo di essere sia una discriminazione verso tutti gli altri? Dobbiamo vergognarci di aver ereditato dalle generazioni passate questo incredibile tesoro immateriale?

Cercare di capitalizzare il valore aggiunto dell'italianità fornendo alla clientela un'esperienza il più possibile legata ad essa non è razzismo, ma semplice buon senso. Né è possibile slegare il Made in Italy dal fattore umano che ne è parte integrante, soprattutto quando si parla di un settore come quello turistico in cui il saper far vivere la tipicità di una specifica esperienza è una delle chiavi del successo.

Per uno straniero in crociera nel Mediterraneo c'è differenza tra imbarcarsi su una nave italiana con personale e stile italiano, ed imbarcarsi sulla stessa nave ma con personale di ogni dove, parlante una Babele di lingue diverse ed istruito alla meno peggio a fornire un servizio "in stile italiano".

La stessa differenza che passa, ad esempio, tra gustare del Parmigiano Reggiano e del Parmesan.

Che anche gli amanti del Parmigiano, sotto sotto, siano razzisti?

lunedì 12 marzo 2018

Elezioni 2018: la buriana populista


Questo blog è poco più di un diario personale, non pretende di spiegare, tantomeno insegnare niente a nessuno, ma a volte riesce ad intuire in anticipo la direzione degli eventi nonostante voci molto più forti ed autorevoli indichino altre strade. Il caso delle elezioni del 4 marzo è uno di questi.

Come scrivevo in questo post di gennaio: "Il 2017 è stato - a torto - raccontato come l'anno della ritirata delle forze sovraniste, mentre iniziava un bombardamento mediatico volto ad instillare il frame della ripresa economica e dell'uscita dalla crisi. La realtà percepibile spostando anche di poco il velo di Maya è tutt'altra [...]".

Le mie sensazioni erano corrette ed il voto l'ha confermato: la netta maggioranza degli italiani non ha abboccato al frame della ripresa rimbalzato ossessivamente dai media, ha respinto il governo "istituzionale", se ne è sbattuta dell'esecutivo "credibile" ed ha gonfiato a dismisura le vele delle forze che più venivano dipinte come irresponsabili, dilettantesche, sgangherate, pericolose o peggio.

Il 4 marzo ha vinto il sentimento populista, continuando il cammino iniziato in tutto il cosiddetto Occidente a partire dall'Oxi greco del 2015 (vergognosamente tradito dal protorenzi Tsipras), passato per il Leave britannico, l'elezione di Donald Trump ed il No al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, con battute d'arresto solo apparenti in Olanda e Francia lo scorso anno.

Mentre veniva battuta dal gelo artico, l'Italia montava nelle urne la buriana furiosa che ha spazzato via qualunque forza politica esplicitamente vicina alle ricette dell'establishment praticate a partire dalla crisi del 2008 e pagate dai ceti medio-bassi con lacrime e sangue.

I due vincitori indiscussi del 4 marzo sono M5S e Lega. I loro elettori hanno votato con lo stesso obiettivo (archiviare il governo dei "credibili" ed esprimere il proprio forte malessere) ma le due forze - entrambe ascrivibili al fenomeno populista - sono decisamente diverse: il voto a Salvini esprime una chiara volontà sovranista, che individua le cause del declino italiano nella progressiva perdita dell'indipendenza nazionale e nell'adesione incondizionata all'ideologia globalista, il voto a Di Maio è ancora legato al frame più genericamente populista della "corruzione dilagante" innata in gran parte degli italiani e la cui vittima sarebbe una mitologica popolazione di "onesti".

La posizione sovranista è per definizione incompatibile con l'ideologia liberista globalizzata, quella grillina invece può rapidamente diventare funzionale al sistema di potere che ho definito Ancien Régime 2.0, dato che ne condivide alcune pratiche fondamentali (tagli alla spesa pubblica, stretta fiscale sui ceti produttivi, critica alla democrazia rappresentativa). Non a caso gli slogan dei 5 Stelle ricalcano quasi alla lettera quelli del Pci di fine anni 70, quando alla lotta di classe in nome del proletariato si sostituì lentamente la generica lotta contro corruzione e sprechi incarnata nella berlingueriana "questione morale" (qui un brillante articolo a riguardo).

Già subito dopo le elezioni uno specialista di allineamento al Potere (quello vero) come Scalfari ha indicato nel movimento di Di Maio il "grande partito della sinistra moderna" destinato a proseguire, assorbendolo, l'opera del Pd:


Per il Movimento 5 Stelle, abilissimo fin qui ad intercettare il malcontento più generico sia a destra che a sinistra, sembra giunto il momento di scoprire le carte: i segnali che le élite stanno inviando sono quantomeno di non ostilità verso un governo Di Maio con appoggio o astensione di parte del Pd. Dovesse nascere, un governo del genere finirebbe per il collocarsi rapidamente nello stesso solco dei precedenti. Dopo qualche concessione minore alle istanze anti-sistema dei 5 Stelle, come ad esempio qualche taglio ai costi della politica e un "Reddito di Cittadinanza" tremendamente simile al restyling del REI piddino, si punterebbe sempre di più sui punti del programma 5 Stelle compatibili con il regime liberista: revisione dei costi, tagli alla spesa, stretta sul denaro contante, sostanziale subalternità all'asse Merkel - Macron. Poco importa che il rapporto di forza sarebbe a favore dei grillini: una volta avviato un governo le minoranze che lo compongono (o che non gli sono ostili) pesano più del blocco maggioritario, avendo meno da perdere dalla caduta dello stesso.

Il panorama dei prossimi mesi è ancora difficilmente decifrabile ma al momento, vista la resilienza di cui è capace il sistema, lo scenario più probabile prevede una ennesima scissione del Pd sulla base della fedeltà a Renzi e la disponibilità della parte non-renziana, magari ricomposta con gli esuli di LeU, a far nascere un governo 5 Stelle, meglio se punteggiato da figure "tecniche" o "istituzionali" rassicuranti per i "mercati".

Consapevolmente o meno, il nuovo governo finirebbe per completare l'opera, che avevo descritto in questo post, già avviata dal Conte-premier Gentiloni: rendere irreversibile la cessione della Sovranità nazionale indebolendo il sistema-paese in modo critico. Se i precedenti esecutivi marciavano volontariamente verso l'obiettivo, questo ci verrebbe portato lentamente, di obbligo in obbligo, a cominciare dalla manovra aggiuntiva di maggio (perché la flessibilità avrà improvvisamente fine), per passare poi alle clausole di salvaguardia tra pochi mesi fino alle trattative sull'Unione bancaria.

Privo di una chiara strategia di distacco dal potere di Bruxelles / Francoforte, anche il più euroscettico dei governi dovrebbe capitolare ad ogni diktat ricevuto, pena l'inizio del "trattamento greco".

A quel punto il consenso raccolto dai 5 Stelle subirebbe un veloce "effetto Tsipras" ed all'inevitabile caduta dell'esecutivo la buriana popolare tornerebbe a soffiare ancora più forte.

Solo sulle vele sovraniste, stavolta.