venerdì 17 ottobre 2014

Il catechismo Rai sull'Unione Europea: 2, L'efficienza energetica

Seconda puntata della rubrica dedicata agli spot-propaganda Rai sull'Unione Europea (la prima parte è qui). Il tema del secondo spot è l'efficienza energetica. Efficienza, e non politica energetica: la differenza non è da poco. In ogni caso questo è il video:

L'efficienza energetica
Soliti 100 secondi, ma stavolta i primi 80 sono dedicati ad una serie di enunciati degni del miglior Catalano: "si libera energia comprando un'auto nuova", oppure "sostituendo la caldaia".


Teorie rivoluzionarie insomma, che stando a quanto dice la voce fuori campo starebbero permettendo all'Italia un risparmio di 73.000 GWh all'anno. Senza dubbio si tratta di un buon risultato, ma non si capisce che c'entri con l'Unione Europea, visto che per ottenerlo sono sufficienti le sole leggi nazionali. Per fortuna c'è il solerte speaker a darci una spiegazione: "Ce l'abbiamo fatta perché in Europa ci siamo dati l'obiettivo di ridurre di un quinto i consumi di energia entro il 2020". Solita musica trionfale, solite immagini positive (uomini in vestiti d'affari che scattano su una pista di atletica, uno snowboarder), e poi la frase chiave:

"Ci saremmo riusciti senza l'impegno preso con l'Europa?"

In cauda venenum, dicevano un tempo, ed a ragione. Il concetto che si vuole far digerire agli spettatori in questo caso è: non siamo in grado di governarci autonomamente, ma per fortuna c'è l'Unione che ci costringe ad essere virtuosi. E' ancora una volta la vecchia idea di vincolo esterno che fa capolino, la solita storia che in quanto italiani-pizza-mandolino siamo geneticamente incapaci di costruire alcunché con le nostre sole forze, ed abbiamo costantemente bisogno della guida illuminata di qualche popolo superiore.

Come se, limitandoci al campo dell'energia, l'Italia non sia stata la prima nazione dell'Europa continentale ad aver costruito una centrale elettrica; la prima nazione d'Europa ad avere una centrale idroelettrica, la prima nazione al mondo ad avere una centrale geotermoelettrica. Ai tempi non esistevano vincoli esterni, ma questo popolo di "furbi, corrotti e inetti" imparava, da solo e prima degli altri, a sfruttare nuove tecnologie (la famosa ricerca e innovazione oggi tanto invocata a parole quanto ignorata nei fatti) gettando le basi di quel processo di crescita che ci avrebbe portato in meno di un secolo dall'essere una nazione agricola a diventare una delle più importanti economie industriali del mondo.

Viene da chiedersi: Ci saremmo riusciti sotto i vincoli presi con l'Europa?

venerdì 10 ottobre 2014

La diaspora silenziosa



I miei amici se ne vanno.
Un bel giorno, mentre si parla del più e del meno, si commenta una partita o un film, annunciano la loro decisione.
"Ho pensato di andare a vivere fuori - dicono, tutti con lo stesso sorriso un po' forzato, - ho già comprato il biglietto, là (che può essere l'Inghilterra, come l'Olanda o l'Australia) c'è gente che conosco, ci sono più possibilità. Qui non c'è più niente da fare".
Li vedo andare via, alla spicciolata, con l'ottimismo nervoso di chi sa che sta compiendo un atto doloroso ma senza alternative. Devo incoraggiarli, dire loro che fanno bene e che staranno meglio, ma non riesco a nascondere del tutto la rabbia che provo.
I miei amici, come me, fanno parte della generazione perduta, quella che sta pagando e pagherà il tradimento compiuto dalla generazione precedente. Quando eravamo ancora troppo piccoli per renderci conto di quanto stava succedendo, hanno iniziato a toglierci il futuro, un morso alla volta.

Ci hanno detto che non avevamo il diritto di avere quelle certezze che erano state dei nostri genitori, quelle per cui i nostri nonni e i loro padri avevano lottato. Per noi sarebbe stato impossibile lavorare nello stesso luogo in modo stabile, contribuendo con il nostro operato alla crescita dell'attività e ricevendone in cambio esperienza e un salario duraturo. No, noi dovevamo imparare la flessibilità: un anno qui, due anni là, un anno a casa a sbattere la testa per cercare un nuovo impiego, come in un orrendo platform game in cui salti da una pedana all'altra sperando di non trovare mai quella che ti si sbriciola sotto i piedi.

Ci hanno detto che avremmo dovuto continuare a lavorare, a queste condizioni, molto più a lungo dei nostri genitori e dei nostri nonni per ricavarne forse, alla fine, una pensione inferiore alla loro. Non ci sono le risorse - ci hanno detto - ormai si vive troppo a lungo. E cosa importa se trovare un lavoro dignitoso superati i 40 anni è ormai praticamente impossibile, figurarsi a 50 o 60 e oltre: in fondo è della nostra vecchiaia che si parla, non della loro.

Ci hanno detto che non dobbiamo aspirare ad una casa che sia nostra, ad una famiglia da creare e veder crescere, cui tramandare ciò che sappiamo, ciò che ci hanno tramandato. Nel mondo che avevano in mente per noi esiste solo un eterno presente cui sopravvivere il meglio possibile, l'orizzonte che ci è concesso termina dopo una manciata di mesi. Non c'è tempo per pensare a cose che richiedono decenni.

E mentre continuavano a immolare il nostro futuro sull'altare delle loro ideologie economiche, si permettevano anche di insultarci: noi siamo i bamboccioni, i choosy, quelli che dovevano assaggiare di nuovo la durezza del vivere.

Così alla fine i bamboccioni hanno deciso di andarsene. Portandosi via il loro più grande tesoro: un patrimonio di studi, specializzazioni, cultura, idee e gioventù che andranno ad attecchire e fare frutti in altre nazioni, a beneficio di altri popoli. Se ne sono andati in 60.000 nel 2011, in 79.000 nel 2012 [1] e in 94.000 nel 2013 [2]; tutto fa presagire che aumenteranno ancora quest'anno e nei prossimi. Una vera e indiscutibile diaspora silenziosa, che ha però una differenza sostanziale rispetto alle precedenti: mentre tutte le emigrazioni di massa nella storia vengono raccontate come fenomeni negativi generati da disperazione e bisogno, la nuova emigrazione italiana è dipinta quasi in termini positivi, come sintomo di raggiungimento di quella tanto agognata "apertura" al mondo. Anche se le dinamiche e le motivazioni di fondo che costringono alla fuga sono le stesse dei tempi delle valigie di cartone, c'è in campo un tentativo di fare dei nuovi emigranti tanti piccoli Cristoforo Colombo, mossi da curiosità e spirito d'avventura più che da disagio e mancanza di prospettive.

Cazzate.

Di quel quarto di milione di italiani espatriati negli ultimi 3 anni, solo una minoranza trascurabile se ne va perché ha liberamente scelto di vivere altrove. La stragrande maggioranza camuffa da libera scelta quella che è una costrizione, tenta goffamente di salvare un po' di dignità per non dover ammettere di non riuscire a sopravvivere decentemente di fronte alla desertificazione industriale, al degrado morale e materiale, allo svilimento dei cittadini in atto nel fu Bel paese.

Penso che non esista fallimento più grande, per chi guida una nazione, che costringere i propri concittadini ad abbandonare amicizie, affetti, famiglia, terre care per cercare la sopravvivenza altrove. E' atto di violenza enorme e sorda perpetrato con incredibile indifferenza, qualcosa che oggi danneggia solo chi parte, ma domani si ripercuoterà inevitabilmente soprattutto su chi è rimasto.

Chi non si cura di tutto ciò, impegnato solo a cercare europacche sulle spalle per il proprio operato di Viceré, gli alchimisti del 3%, chi pensa che l'occupazione si crei tornando alle regole di lavoro dell'800, chi guarda con il sorriso i giovani che se ne vanno perché nei suoi deliri veterosessantottini vi vede l'alba del "mondo senza frontiere", chi fa spallucce e preferisce occuparsi di gossip e reality, non avrà alibi domani quando dovrà affrontare l'assenza di idee, di ricerca, di lavoro, della forza stessa di un'intera generazione.

[1] Fonte: Repubblica.it
[2] Fonte: Ilsole24ore.com


giovedì 2 ottobre 2014

Nazioni Sovrane e nazioni vassalle



È notizia di ieri la decisione unilaterale del governo francese di rinviare al 2017 il rientro del rapporto deficit / PIL entro il famigerato 3%. La Francia si era impegnata a raggiungere il parametro fissato dall'Unione Europea già quest'anno, ma in seguito è stato necessario prendere "la decisione di adattare il passo di riduzione del deficit alla situazione economica del paese. La nostra politica economica non sta cambiando, ma il deficit sarà ridotto più lentamente del previsto a causa delle circostanze economiche" (parole del Ministro delle Finanze transalpino, Michel Sapin).



Ovviamente alla notizia hanno fatto seguito le proteste, più o meno vivaci, dei mastini dell'austerità UE, Angela Merkel in testa, che hanno subito precisato che "I Paesi devono fare i loro compiti per il loro benessere", ed oggi è lo stesso futuro commissario Moscovici, ex ministro delle Finanze francese, a promettere ritorsioni se non verranno applicate le direttive comunitarie.

La posizione del governo italiano a riguardo è stata, al solito, cerchiobottista: da un lato ci si precipita a rassicurare che il nostro paese rispetterà il limite del 3%, dall'altro ci si schiera a parole al fianco della Francia per la sua decisione.

Al di là del merito della scelta francese, che nel contesto di permanenza della moneta unica porterà probabilmente più problemi di quanti sarà in grado di risolvere, è interessante vedere la differenza di atteggiamento dei due paesi nei confronti dell'Unione Europea.

La Francia interpreta la sua partecipazione all'Ue da nazione sovrana, e si riserva di conseguenza la possibilità di disattendere le normative comunitarie per interessi interni (come salvare quel poco che resta della popolarità del PS). Successe già in passato, è successo ieri. Questa autonomia decisionale è leggermente più marcata con governi di centrodestra, più moderata con governi di centrosinistra, ma è una costante tanto chiara quanto è semplice la dichiarazione rilasciata da Michel Sapin.

L'Italia continua ad interpretare il suo ruolo nell'Ue da nazione vassalla, le sue massime autorità sono ligie al compito di esecutrici di direttive allogene a costo di sacrificare l'interesse del popolo che dovrebbero rappresentare. È come se, nonostante gli anni, i nostri dirigenti continuassero a percepirsi come viceré interessati principalmente ad ottenere il plauso del sovrano di turno, che si tratti del Re di Francia, del Borbone o del Commissario Ue. Il "ce lo chiede l'Europa" è diventato motto proverbiale per esprimere l'impotenza di una classe dirigente incapace di progettare in autonomia soluzioni e strategie per il benessere del proprio popolo. Il massimo della protesta concepibile da questa gente è vanverare di pugni da sbattere su tavoli inesistenti, o esprimere vaghe simpatie per le decisioni sovrane altrui, guardandosi però bene dall'imitarle.

La speranza per gli italiani, purtroppo, pare trovarsi ancora oltreconfine: il totem dell'austerità cieca e sorda sta crollando, lo seguirà quello dell'euro?