sabato 20 dicembre 2014

Il semestre evanescente

Nella giostra dell'Ue prendi calci nel culo anche se rifiuti di darli...

Tra una manciata di giorni si concluderà ufficialmente il semestre di presidenza italiana della Ue, la finestra temporale in cui finalmente avremmo dovuto far sentire e pesare la nostra voce a Bruxelles, facendo deviare almeno un poco il carrozzone eurocratico dall'inflessibile rotaia del rigore. Cosa si è raccolto in questi sei mesi?

Praticamente nulla. Ma vediamo nel dettaglio:

Intanto questo è il programma del semestre, intitolato con molta modestia "Europa, un nuovo Inizio". Nell'introduzione si legge: "Le principali sfide di oggi rimangono: la ripresa dalla crisi economica e finanziaria, l’aumento dell’occupazione, il rafforzamento dei diritti fondamentali e il sostegno ai cittadini europei per tenere il passo con un mondo in rapido mutamento. La Presidenza italiana del Consiglio UE è determinata ad affrontare queste sfide per aiutare l’UE a progredire".

Lavoro: Il punto fondamentale, almeno nelle intenzioni, del semestre a guida italiana, è forse quello in cui il fallimento è più eclatante. Nei sei mesi a guida italiana non è stato fatto assolutamente nulla per arginare l'emorragia di posti di lavoro in atto in Europa; la disoccupazione continua a crescere in tutta la periferia, quella italiana in particolare è passata dal 12,8% del luglio 2014 al 13,2% di ottobre. La disoccupazione giovanile è aumentata dal 42,8% di luglio al 43,3% di ottobre (fonte Istat).
La strategia italiana a riguardo prevedeva un grande evento-spot da tenersi a Torino, città simbolo del declino industriale italiano ed europeo. Neppure questo si è riusciti ad ottenere, ed il governo si è alla fine accontentato di un summit a Milano, poco più di uno scambio di formalità tra capi di Stato e di Governo, sui cui risultati non è dato sapere.

Politiche energetiche: Altro clamoroso tonfo. L'Italia proprio durante il suo semestre di presidenza ha assistito inerte all'accantonamento del South Stream, di cui si era parlato qui, progetto strategico per le esigenze nazionali clamorosamente boicottato a tutti i livelli da Bruxelles. Il risultato è stato un crollo delle azioni di Saipem e la restrizione del campo d'azione di Eni.

Politica Estera: Qui una vittoria apparente ci sarebbe stata. Federica Mogherini è Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Ruolo che viene spacciato per "Ministro degli Esteri dell'Unione Europea" ma che somiglia più al ruolo del Dalai Lama: tanta immagine e zero potere reale. In più l'ex-ministro degli Esteri italiano ha dovuto fare pubblica professione di fede antirussa prima di ottenere l'investitura, ponendosi quindi preventivamente in posizione antitetica agli interessi strategici italiani. Il peso dell'Italia è stato nullo nella vicenda Ucraina, nullo nella vicenda dei nostri marò in India, nullo nell'affrontare l'emergenza sbarchi in Sicilia, nullo nel tutelare gli imprenditori italiani danneggiati dalle sanzioni contro la Russia.

Ambiente: Il pacchetto clima della Ue è stato chiuso in ottobre e definisce direttive in termini di riduzione delle emissioni di Co2 e aumento della quota di energia rinnovabile. Ma si tratta di linee guida da applicare nei prossimi anni, quindi niente di concreto. Certo l'attuale desertificazione industriale di intere regioni dell'Unione sarà di grande aiuto nell'abbattere l'inquinamento, con buona pace dei posti di lavoro che vengono e verranno bruciati.

Investimenti e crescita: Su questo tema si è assistito ad autentiche acrobazie per spacciare come storica vittoria quello che in realtà è un brodino caldo somministrato ad un malato terminale. La presidenza italiana non è riuscita a spostare di un millimetro le posizioni rigoriste di Bruxelles, ed ha dovuto elemosinare una dilazione temporale di 3 mesi sui suoi conti per evitare una legge di stabilità pesantissima. A marzo però i tecnocrati di Bruxelles torneranno alla carica, e stavolta non accetteranno scuse. Riguardo il Piano Juncker c'è poco da dire: intanto non è stato ancora approvato - se ne parlerà solo a febbraio - poi bisogna ricordare che il denaro messo a disposizione da questo salvifico progetto è pari a 21 miliardi di euro da dividere tra i 28 paesi dell'Ue. La cifra di 315 miliardi che viene continuamente ripetuta è il frutto di una pia speranza, quella che ogni euro di questo fondo possa generarne 15 tra investimenti pubblici e privati. 
 La stessa efficacia di una danza della pioggia in pieno deserto del Mojave.

Concludendo: Sconfitta sul fronte South Stream, ignorata nella vicenda marò, presa in giro sul fronte immigrazione, bacchettata per il rispetto del rigore, l'Italia deve ingoiare anche la mancata approvazione della legge a tutela del Made in, ultimo rifugio per la nostra agonizzante produzione bloccato tanto per cambiare, dai paesi del Nord. 
Davvero un gran bel risultato per quello che doveva essere il "nuovo inizio" dell'Europa, non c'è che dire.

mercoledì 10 dicembre 2014

La scelta di Paulo

Paulo Dybala
La notizia è di qualche giorno fa: il giovane attaccante del Palermo Paulo Dybala ha rifiutato l'offerta di Antonio Conte per un posto nella nazionale italiana.

“No podría salir a defender los colores de otro país como si fueran los míos, prefiero esperar que me toque un llamado de Argentina” (Non potrei difendere i colori di un altro paese come se fossero i miei, preferisco aspettare una convocazione dall'Argentina): parole che sembrano venire da un altro tempo, quelle del ventunenne di Laguna Larga, e da un altro mondo; lontanissime da quel calcio-business che in nome del denaro sgretola appartenenze, bandiere e nazionalità.

Come se indossare la maglia di una nazionale piuttosto che di un'altra sia del tutto indifferente, una semplice questione di marketing, al massimo un'occasione per spuntare contratti più lucrosi. Nel calcio globalizzato basta un bisnonno finlandese per vestire la maglia biancoblu. Non importa che non si sia nati in Finlandia, non si capisca una parola della lingua e neppure si sappia trovare Helsinki su una cartina geografica: Business is business, ed i soldi non hanno tempo per romanticherie demodé come l'attaccamento alle proprie origini, il senso di Patria.

Ma dall'alto dei suoi 21 anni, di una carriera ancora agli inizi e già molto promettente, di una storia personale dolorosa e per nulla banale, l'argentino Paulo Dybala fa scalpore per aver compiuto una scelta di semplice buon senso: giocare per la sua gente, vestendo la maglia della sua Nazione.

Perché la nazionalità non è solo una scritta sul passaporto, non è un banale dato burocratico da poter assegnare e cambiare a capriccio: nazionalità è la lingua che parliamo e con cui pensiamo, il panorama della nostra infanzia, l'aria che abbiamo respirato, il cibo che abbiamo mangiato. Sono tutte le abitudini e i piccoli rituali quotidiani che abbiamo imparato, sono i volti e le voci dei nostri cari. Tutto questo e la volontà di riconoscersi in un determinato contesto umano, di "fare squadra" per contribuire secondo le proprie capacità ad una storia che è al tempo stesso personale e collettiva.
Esattamente ciò che ha scelto di fare Paulo Dybala, calciatore argentino.

P.S. Di tutto questo, la stampa nostrana ha capito che Dybala preferisce la maglia albiceleste perché "vuole giocare con Messi". Come sempre c'è chi guarda la Luna e chi non vede oltre il dito che la lindica...


mercoledì 3 dicembre 2014

Stream of (un)consciousness


Ed alla fine Putin abbandonò il tavolo.

La lunga e tormentata vicenda del gasdotto South Stream giunge al capolinea, vittima dell'assurda guerra non convenzionale combattuta tra due pezzi d'Europa: la Russia e la tecnocrazia Ue. Con gli stati membri della seconda a fare da cannon fodder per il vero giocatore d'oltreoceano.

L'epitaffio al progetto, almeno nella forma attuale, è arrivato non a caso durante l'incontro tra Putin ed Erdogan ad Ankara. "Tenendo conto del fatto che finora noi non abbiamo ricevuto autorizzazioni dalla Bulgaria [1], crediamo che nelle condizioni attuali la Russia non possa continuare con la realizzazione del progetto" ha annunciato il presidente russo, dichiarando contestualmente l'intenzione di dirottare il percorso del gasdotto verso la Turchia.
Ancora più laconico il ceo di Gazprom Alexei Miller: "il progetto è finito".

Come al solito la notizia è stata opportunamente distorta dai media nostrani, facendo passare per sconfitta di Putin quello che è a tutti gli effetti un gesto di puro autolesionismo della Ue, ed una vera disfatta (l'ennesima negli ultimi anni) italiana, che tramite l'Eni era stata artefice e partner principale dei russi nel progetto. Ma il South Stream, idealmente gemello del North Stream già operativo, non è mai piaciuto ai nostri cari tecnocrati di Bruxelles ed ancora meno a Washington, che puntava le sue carte sul progetto Nabucco, il cui gas proviene dalle più "amichevoli" Georgia e Azerbaijan.

Come già accadde anni fa con lo sconsiderato rovesciamento di Gheddafi, la principale vittima collaterale della partita a scacchi energetica è l'Italia, che perde di colpo una partnership strategica, importanti commesse (2,4 miliardi di dollari, il 10% dell'intero portafoglio ordini, solo per la Saipem) ed un grande canale di rifornimento per le proprie industrie. Oltre ad una non indifferente quantità di posti di lavoro.

Il nostro Viceré ancora una volta fa spallucce, mentre il governo si affretta ad indicare fantasiose fonti alternative che dovrebbero garantire un prospero futuro energetico alla Nazione (posti notoriamente stabili ed affidabili come Mozambico, Congo Brazzaville e Angola, oppure progetti come il Tap, con tutte le sue problematiche di impatto ambientale ed in cui il coinvolgimento delle aziende energetiche italiane è pari a zero).

D'altra parte, quando come unica strategia si ha lo smembramento e la svendita del nostro patrimonio industriale per pagare un debito pubblico sulla cui genesi ci sarebbe moltissimo da dire, a che serve preoccuparsi di creare opportunità di crescita per le nostre aziende? Che senso ha darsi da fare perché l'Italia resti allo stesso tavolo dei grandi paesi industriali del mondo, quando si rimane pervicacemente aggrappati ad un organismo (la Ue) la cui politica è antitetica all'interesse nazionale?


[1] I lavori di realizzazione del gasdotto sono bloccati dalle autorità bulgare, che non vogliono contravvenire alle norme Ue sulla separazione tra chi fornisce e chi commercializza il gas, rinunciando di fatto ad utili per 400 milioni di dollari all'anno.

lunedì 24 novembre 2014

Elezioni regionali: ha ragione lui.



All'indomani delle elezioni per il rinnovo dei consigli regionali di Calabria ed Emilia-Romagna, travolti dalle solite vicende giudiziarie, più che il risultato (un prevedibilissimo cappotto 2-0 a favore del csx) sembra fare scalpore il dato dell'affluenza alle urne: 44,07% in Calabria, 37,67% in Emilia-Romagna. Oltre la metà dei cittadini calabresi ed emiliano-romagnoli ha deciso di disertare le urne, scatenando oggi una tempesta di analisi sui perché e sui percome di questa scelta.

Tra tutti i commenti, il più sensato sembra quello del Presidente del Consiglio: «Il fatto che non ci sia stata una grande affluenza è un elemento che deve preoccupare e far riflettere ma che è secondario perché checché se ne dica non tutti hanno perso» (fonte: Corriere.it).
Lasciando stare le solite lacrime di coccodrillo: preoccupazione, riflessione, bla bla bla, Renzi esprime chiaramente una particolare concezione della democrazia, non a caso molto simile a quella prevalente nella sempre virtuosa Unione Europea. Da bravo Viceré, il premier sa che nell'Italia che si sta disegnando a immagine e somiglianza di Bruxelles il parere degli elettori sarà sempre meno importante, così come sempre più flebile sarà il rapporto tra questi e gli eletti. Tra una cessione di sovranità e l'altra, è inevitabile che si crei una frattura tra governanti e cittadini, con i primi impegnati esclusivamente a portare avanti un piano di modifiche dell'assetto legislativo e costituzionale completamente indipendente dal volere degli elettori ed i secondi utilizzati come mero cavillo per dare legittimità all'azione governativa.

Già oggi, prima ancora dell'approvazione delle cosiddette "riforme istituzionali", l'apparato democratico appare menomato, svuotato di senso, piegato ad uso di interessi "altri" da quelli nazionali. Le camere, formate da parlamentari eletti non per capacità ma per fedeltà a questo o quel leader, sono sempre meno luogo di dialogo e sempre più ufficio di certificazione dell'iniziativa del governo (incredibile la disinvoltura con cui questo esecutivo ricorre al voto di fiducia). A sua volta, il governo agisce all'interno di un binario sempre più stretto e deciso da istituzioni extranazionali in gran parte non legittimate dal voto popolare (Commissione UE anyone?). E dove non arriva il governo arriva il principio di preferenza comunitaria.

In un contesto simile, con alle porte un trattato internazionale che se approvato potrebbe, potenzialmente, consentire ad una qualsiasi multinazionale del Fankulistan di fare causa ad uno Stato Sovrano (e vincerla) perché con le sue leggi ostacola il libero commercio dei wurstel all'uranio impoverito, a chi volete che importi della quantità di elettori che decide di andare alle urne?
Anzi, che se ne restino a casa il più possibile: l'esperienza degli Stati Uniti dimostra che si può tranquillamente governare un paese anche quando metà degli aventi diritto diserta regolarmente il voto. Nel momento in cui il legislatore non sente più come prioritario il legame con il popolo che dovrebbe rappresentare, ma si fa carico di un'agenda stilata altrove, la scelta astensionista si traduce di fatto in una delega in bianco. Il nuovo governatore dell'Emilia Romagna, la cui maggioranza rappresenta appena il 17% dei votanti (in Calabria va un po' meglio, ma siamo sempre al 25%), non sarà per questo meno legittimato a portare avanti il programma confezionato per lui sotto "ispirazione" di qualche ufficio di Bruxelles, e che probabilmente si riassume nello slogan "taglia & vendi".

Più che contro la cosiddetta casta politica, l'astensionismo di domenica rischia di essere un poderoso sputo lanciato per aria.
E si sa di solito dove tende a ricadere...

venerdì 17 ottobre 2014

Il catechismo Rai sull'Unione Europea: 2, L'efficienza energetica

Seconda puntata della rubrica dedicata agli spot-propaganda Rai sull'Unione Europea (la prima parte è qui). Il tema del secondo spot è l'efficienza energetica. Efficienza, e non politica energetica: la differenza non è da poco. In ogni caso questo è il video:

L'efficienza energetica
Soliti 100 secondi, ma stavolta i primi 80 sono dedicati ad una serie di enunciati degni del miglior Catalano: "si libera energia comprando un'auto nuova", oppure "sostituendo la caldaia".


Teorie rivoluzionarie insomma, che stando a quanto dice la voce fuori campo starebbero permettendo all'Italia un risparmio di 73.000 GWh all'anno. Senza dubbio si tratta di un buon risultato, ma non si capisce che c'entri con l'Unione Europea, visto che per ottenerlo sono sufficienti le sole leggi nazionali. Per fortuna c'è il solerte speaker a darci una spiegazione: "Ce l'abbiamo fatta perché in Europa ci siamo dati l'obiettivo di ridurre di un quinto i consumi di energia entro il 2020". Solita musica trionfale, solite immagini positive (uomini in vestiti d'affari che scattano su una pista di atletica, uno snowboarder), e poi la frase chiave:

"Ci saremmo riusciti senza l'impegno preso con l'Europa?"

In cauda venenum, dicevano un tempo, ed a ragione. Il concetto che si vuole far digerire agli spettatori in questo caso è: non siamo in grado di governarci autonomamente, ma per fortuna c'è l'Unione che ci costringe ad essere virtuosi. E' ancora una volta la vecchia idea di vincolo esterno che fa capolino, la solita storia che in quanto italiani-pizza-mandolino siamo geneticamente incapaci di costruire alcunché con le nostre sole forze, ed abbiamo costantemente bisogno della guida illuminata di qualche popolo superiore.

Come se, limitandoci al campo dell'energia, l'Italia non sia stata la prima nazione dell'Europa continentale ad aver costruito una centrale elettrica; la prima nazione d'Europa ad avere una centrale idroelettrica, la prima nazione al mondo ad avere una centrale geotermoelettrica. Ai tempi non esistevano vincoli esterni, ma questo popolo di "furbi, corrotti e inetti" imparava, da solo e prima degli altri, a sfruttare nuove tecnologie (la famosa ricerca e innovazione oggi tanto invocata a parole quanto ignorata nei fatti) gettando le basi di quel processo di crescita che ci avrebbe portato in meno di un secolo dall'essere una nazione agricola a diventare una delle più importanti economie industriali del mondo.

Viene da chiedersi: Ci saremmo riusciti sotto i vincoli presi con l'Europa?

venerdì 10 ottobre 2014

La diaspora silenziosa



I miei amici se ne vanno.
Un bel giorno, mentre si parla del più e del meno, si commenta una partita o un film, annunciano la loro decisione.
"Ho pensato di andare a vivere fuori - dicono, tutti con lo stesso sorriso un po' forzato, - ho già comprato il biglietto, là (che può essere l'Inghilterra, come l'Olanda o l'Australia) c'è gente che conosco, ci sono più possibilità. Qui non c'è più niente da fare".
Li vedo andare via, alla spicciolata, con l'ottimismo nervoso di chi sa che sta compiendo un atto doloroso ma senza alternative. Devo incoraggiarli, dire loro che fanno bene e che staranno meglio, ma non riesco a nascondere del tutto la rabbia che provo.
I miei amici, come me, fanno parte della generazione perduta, quella che sta pagando e pagherà il tradimento compiuto dalla generazione precedente. Quando eravamo ancora troppo piccoli per renderci conto di quanto stava succedendo, hanno iniziato a toglierci il futuro, un morso alla volta.

Ci hanno detto che non avevamo il diritto di avere quelle certezze che erano state dei nostri genitori, quelle per cui i nostri nonni e i loro padri avevano lottato. Per noi sarebbe stato impossibile lavorare nello stesso luogo in modo stabile, contribuendo con il nostro operato alla crescita dell'attività e ricevendone in cambio esperienza e un salario duraturo. No, noi dovevamo imparare la flessibilità: un anno qui, due anni là, un anno a casa a sbattere la testa per cercare un nuovo impiego, come in un orrendo platform game in cui salti da una pedana all'altra sperando di non trovare mai quella che ti si sbriciola sotto i piedi.

Ci hanno detto che avremmo dovuto continuare a lavorare, a queste condizioni, molto più a lungo dei nostri genitori e dei nostri nonni per ricavarne forse, alla fine, una pensione inferiore alla loro. Non ci sono le risorse - ci hanno detto - ormai si vive troppo a lungo. E cosa importa se trovare un lavoro dignitoso superati i 40 anni è ormai praticamente impossibile, figurarsi a 50 o 60 e oltre: in fondo è della nostra vecchiaia che si parla, non della loro.

Ci hanno detto che non dobbiamo aspirare ad una casa che sia nostra, ad una famiglia da creare e veder crescere, cui tramandare ciò che sappiamo, ciò che ci hanno tramandato. Nel mondo che avevano in mente per noi esiste solo un eterno presente cui sopravvivere il meglio possibile, l'orizzonte che ci è concesso termina dopo una manciata di mesi. Non c'è tempo per pensare a cose che richiedono decenni.

E mentre continuavano a immolare il nostro futuro sull'altare delle loro ideologie economiche, si permettevano anche di insultarci: noi siamo i bamboccioni, i choosy, quelli che dovevano assaggiare di nuovo la durezza del vivere.

Così alla fine i bamboccioni hanno deciso di andarsene. Portandosi via il loro più grande tesoro: un patrimonio di studi, specializzazioni, cultura, idee e gioventù che andranno ad attecchire e fare frutti in altre nazioni, a beneficio di altri popoli. Se ne sono andati in 60.000 nel 2011, in 79.000 nel 2012 [1] e in 94.000 nel 2013 [2]; tutto fa presagire che aumenteranno ancora quest'anno e nei prossimi. Una vera e indiscutibile diaspora silenziosa, che ha però una differenza sostanziale rispetto alle precedenti: mentre tutte le emigrazioni di massa nella storia vengono raccontate come fenomeni negativi generati da disperazione e bisogno, la nuova emigrazione italiana è dipinta quasi in termini positivi, come sintomo di raggiungimento di quella tanto agognata "apertura" al mondo. Anche se le dinamiche e le motivazioni di fondo che costringono alla fuga sono le stesse dei tempi delle valigie di cartone, c'è in campo un tentativo di fare dei nuovi emigranti tanti piccoli Cristoforo Colombo, mossi da curiosità e spirito d'avventura più che da disagio e mancanza di prospettive.

Cazzate.

Di quel quarto di milione di italiani espatriati negli ultimi 3 anni, solo una minoranza trascurabile se ne va perché ha liberamente scelto di vivere altrove. La stragrande maggioranza camuffa da libera scelta quella che è una costrizione, tenta goffamente di salvare un po' di dignità per non dover ammettere di non riuscire a sopravvivere decentemente di fronte alla desertificazione industriale, al degrado morale e materiale, allo svilimento dei cittadini in atto nel fu Bel paese.

Penso che non esista fallimento più grande, per chi guida una nazione, che costringere i propri concittadini ad abbandonare amicizie, affetti, famiglia, terre care per cercare la sopravvivenza altrove. E' atto di violenza enorme e sorda perpetrato con incredibile indifferenza, qualcosa che oggi danneggia solo chi parte, ma domani si ripercuoterà inevitabilmente soprattutto su chi è rimasto.

Chi non si cura di tutto ciò, impegnato solo a cercare europacche sulle spalle per il proprio operato di Viceré, gli alchimisti del 3%, chi pensa che l'occupazione si crei tornando alle regole di lavoro dell'800, chi guarda con il sorriso i giovani che se ne vanno perché nei suoi deliri veterosessantottini vi vede l'alba del "mondo senza frontiere", chi fa spallucce e preferisce occuparsi di gossip e reality, non avrà alibi domani quando dovrà affrontare l'assenza di idee, di ricerca, di lavoro, della forza stessa di un'intera generazione.

[1] Fonte: Repubblica.it
[2] Fonte: Ilsole24ore.com


giovedì 2 ottobre 2014

Nazioni Sovrane e nazioni vassalle



È notizia di ieri la decisione unilaterale del governo francese di rinviare al 2017 il rientro del rapporto deficit / PIL entro il famigerato 3%. La Francia si era impegnata a raggiungere il parametro fissato dall'Unione Europea già quest'anno, ma in seguito è stato necessario prendere "la decisione di adattare il passo di riduzione del deficit alla situazione economica del paese. La nostra politica economica non sta cambiando, ma il deficit sarà ridotto più lentamente del previsto a causa delle circostanze economiche" (parole del Ministro delle Finanze transalpino, Michel Sapin).



Ovviamente alla notizia hanno fatto seguito le proteste, più o meno vivaci, dei mastini dell'austerità UE, Angela Merkel in testa, che hanno subito precisato che "I Paesi devono fare i loro compiti per il loro benessere", ed oggi è lo stesso futuro commissario Moscovici, ex ministro delle Finanze francese, a promettere ritorsioni se non verranno applicate le direttive comunitarie.

La posizione del governo italiano a riguardo è stata, al solito, cerchiobottista: da un lato ci si precipita a rassicurare che il nostro paese rispetterà il limite del 3%, dall'altro ci si schiera a parole al fianco della Francia per la sua decisione.

Al di là del merito della scelta francese, che nel contesto di permanenza della moneta unica porterà probabilmente più problemi di quanti sarà in grado di risolvere, è interessante vedere la differenza di atteggiamento dei due paesi nei confronti dell'Unione Europea.

La Francia interpreta la sua partecipazione all'Ue da nazione sovrana, e si riserva di conseguenza la possibilità di disattendere le normative comunitarie per interessi interni (come salvare quel poco che resta della popolarità del PS). Successe già in passato, è successo ieri. Questa autonomia decisionale è leggermente più marcata con governi di centrodestra, più moderata con governi di centrosinistra, ma è una costante tanto chiara quanto è semplice la dichiarazione rilasciata da Michel Sapin.

L'Italia continua ad interpretare il suo ruolo nell'Ue da nazione vassalla, le sue massime autorità sono ligie al compito di esecutrici di direttive allogene a costo di sacrificare l'interesse del popolo che dovrebbero rappresentare. È come se, nonostante gli anni, i nostri dirigenti continuassero a percepirsi come viceré interessati principalmente ad ottenere il plauso del sovrano di turno, che si tratti del Re di Francia, del Borbone o del Commissario Ue. Il "ce lo chiede l'Europa" è diventato motto proverbiale per esprimere l'impotenza di una classe dirigente incapace di progettare in autonomia soluzioni e strategie per il benessere del proprio popolo. Il massimo della protesta concepibile da questa gente è vanverare di pugni da sbattere su tavoli inesistenti, o esprimere vaghe simpatie per le decisioni sovrane altrui, guardandosi però bene dall'imitarle.

La speranza per gli italiani, purtroppo, pare trovarsi ancora oltreconfine: il totem dell'austerità cieca e sorda sta crollando, lo seguirà quello dell'euro?

venerdì 26 settembre 2014

La favola del Jobs Act e del perfido Articolo18


Bisogna riformare il lavoro.

La parola d'ordine di questo autunno è chiara, e rimbalza come di consuetudine su tutti i media-megafono del potere governativo e limitrofo. Ovunque è un proliferare di appelli a "cambiare", "riformare", "superare". I più prudenti invece sostengono la necessità di "mettersi al passo". Di cosa? ma della mitologica "Europa", ovviamente.
Così la salvifica riforma che sconfiggerà in un sol colpo problemi strutturali, declino industriale e disoccupazione viene chiesta a gran voce dall'Ue (e te pareva), dal Presidente, da Confindustria, da Marchionne e chi più ne ha più ne metta.

Il ragionamento di fondo dei "riformisti" è che il mondo del lavoro in Italia è paralizzato da norme che impediscono alle aziende di crescere e assumere quei dipendenti che vorrebbero tanto assumere, ma non possono per paura di doverli pagare anche in caso di cicli economici negativi, ristrutturazioni o imprevisti dovuti alla velocità con cui i mercati mutano nel XXI secolo.

In particolare, il chiodo più doloroso piantato nel corpo delle aziende italiane si chiamerebbe Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, compreso nella Legge 300 del 20 maggio 1970. L'Articolo 18 regola i casi di licenziamento illegittimo dei lavoratori. Un lavoratore di un'azienda con almeno 15 dipendenti che venga licenziato a suo dire senza validi motivi, può fare causa al datore di lavoro. Qualora il giudice riscontri che l'allontanamento è avvenuto senza giusta causa, in base all'Articolo 18 può disporre il reinserimento in azienda del lavoratore licenziato, con il pagamento delle retribuzioni non percepite, oppure a scelta del dipendente può disporre il pagamento di un indennità economica pari a 15 mensilità.

Purtroppo non esistono statistiche precise sul numero di cause risolte in base all'art. 18, ma una stima verosimile, citata anche dal premier Renzi, parla di circa 40mila casi, di cui l'80% finiscono in un accordo e solo 3000 con il reintegro. 40mila casi su una platea di 8-9 milioni di persone (tanti sono i lavoratori teoricamente protetti da questa norma).  
E a causa di questi 40mila casi l'intero complesso industriale italiano sarebbe incapace di competere con il resto del mondo?
Davvero?
Davvero davvero?

Ci vuole proprio tanto pelo sullo stomaco per bersi come sensata una roba del genere.

Eppure, Mostrando una arroganza con pochi eguali, in questi giorni vediamo ovunque esponenti politici e relativo codazzo di giornalisti che ci spiegano come nella società attuale (quella che loro hanno contribuito a creare) non ci sia più spazio per pretese come quelle di lavorare a lungo con la stessa azienda, magari basando su quel lavoro un progetto di vita, una famiglia, addirittura (orrore!) l'acquisto di una casa.
No, - ci dice il politicante - i giovani di oggi devono abituarsi a cambiare più volte lavoro negli anni, devono accettare questa sfida che li accresce professionalmente e umanamente!
Beh, anche dormire sotto i ponti può essere visto come una sfida e può, forse, accrescere umanamente, ciò non toglie che qualsiasi essere umano mediamente intelligente cerchi di evitare quella condizione in ogni modo possibile.



C'è da ricordare anche che quando parlano di giovani, di future generazioni, di figli, questi signori stanno parlando dei NOSTRI giovani, delle NOSTRE future generazioni e dei NOSTRI figli, perché per i loro hanno in mente tutta un'altra vita che somiglia, guarda un po', a quella che dicono non sia più possibile.

Molto più semplicemente, l'articolo 18 è una delle poche vestigia rimaste di un'altra concezione di società, antitetica a quella in fase di perfezionamento in questo scorcio di nuovo secolo. Una società che aveva al centro l'essere umano e non il mercato, una società che vedeva il lavoro come mezzo per la realizzazione dell'uomo (la famosa Repubblica fondata sul lavoro) e non l'uomo come mezzo per la realizzazione di piani industriali.

Eppure, nonostante l'assurdità di vedere l'articolo 18 come ostacolo alla crescita, nonostante la violenza di voler imporre ad intere generazioni un futuro di incertezza e lavori precari, nonostante la premeditazione di un crimine grave quanto quello di strappare ai figli il benessere costruito per loro dai padri, si continuerà tetragoni per questa strada, comprimendo il più possibile i redditi dei ceti medio-bassi in una folle corsa al ribasso che è esattamente il contrario di quanto fatto negli ultimi150 anni.

Un tempo pensavo che la grande sfida lanciata dal decollo industriale dei Brics si sarebbe giocata cercando di far ascendere i loro ceti medio-bassi al livello dei nostri. Evidentemente invece il progetto mirava all'esatto opposto.

P.S. Per chi volesse qualche dato in più, segnalo questo articolo di Riccardo Realfonzo per Economiaepolitica.it
Riccardo Realfonzo
Riccardo Realfonzo

giovedì 4 settembre 2014

Ancora sull'emigrazione dei marchi italiani

Breve post per segnalare questo articolo a firma Mitt Dolcino, dove si ripercorre rapidamente la storia di alcune delle principali svendite cessioni all'estero di aziende italiane, focalizzandosi sui principali artefici (pochi, quasi sempre gli stessi) di quelle operazioni e sulle conseguenze (tristi) in termini di occupazione e crescita delle aziende cedute.

Ancora una volta è evidentissima l'urgenza di difendere ad ogni costo il patrimonio di aziende, tecnologia, infrastrutture che le generazioni precedenti alla nostra hanno saputo costruire nonostante guerre, occupazioni, crisi e competizione internazionale, e che da più di trent'anni ormai è bersaglio di un durissimo attacco volto a desertificare l'industria italiana riducendoci da terza potenza economica europea al rango di paese satellite, dipendente in tutto dall'estero.

lunedì 18 agosto 2014

Il catechismo Rai sull'Unione Europea: 1, L'Unione "nata per la pace"

Sono iniziati, con cronometrica precisione, poco prima della campagna elettorale per le Europee (ma la scusa ufficiale è che fossero stati pensati per pubblicizzare il semestre italiano di presidenza Ue). Hanno iniziato a fare capolino in tutti i canali Rai, alle ore più svariate, senza fermarsi nemmeno durante il periodo di par condicio, come se l'argomento Europa non fosse parte in causa durante le elezioni del parlamento europeo. Hanno sollevato un polverone abilmente nascosto dal mainstream ma ancora ben visibile su internet - basta cercare "spot europa rai" su un qualsiasi motore di ricerca - e continuano ad essere trasmessi anche a mesi di distanza dalle elezioni, nonostante il travolgente risultato pro-UE ormai certificato dalle urne.

Sono gli spot prodotti dalla tv di Stato nell'ambito del progetto Cantiere Europa, una serie di filmati di circa 2 minuti a metà tra il Cinegiornale Luce e i 2 minuti d'odio di 1984 che, affrontando varie tematiche del vivere comune, cercano in tutti i modi di inculcare il messaggio che l'Unione Europea ed il suo figlioccio euro sono non solo un bene, ma una necessità, senza cui vivremmo in un mondo di guerra, malattia, povertà e fame.

Una simpatica campagna terrorista in piena regola, insomma, pagata con il denaro dei contribuenti italiani (anche di quelli che di Euro e UE non vogliono più sentir parlare) ed impostata secondo gli schemi più classici della propaganda. Falsità comprese.

Tentiamo di smontare questa roba un po' per volta, ad iniziare dallo spot più surreale della serie:

L'Europa, una unione nata per la pace
Essendo spot mirati principalmente ad instillare pochi semplici concetti nel pubblico e non a fornire vera informazione, il pedale delle emozioni viene premuto a fondo già dai primi secondi, con una bella combinazione di musica angosciante e immagini immediatamente percepibili come negative.  
Il messaggio arriva forte e chiaro: l'Europa prima dell'Unione era una terra di morte e paura.

Poi, dopo 40 secondi di rovine, guerra e sciagure varie, la svolta: si passa improvvisamente ad immagini più rassicuranti, strumenti di precisione (bilance, orologi, occhiali), simboli di serietà e competenza. Arriva l'idea "straordinaria": nasce la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA). La musica inizia a prendere un tono più epico-solenne, mentre la voce fuori campo specifica subito che, a dispetto del nome marcatamente orientato verso il mondo industriale, la CECA "non nasce per ragioni economiche" ma per rendere "materialmente impossibile una nuova guerra".

Anche lo spettatore più distratto deve percepire emotivamente questo passaggio come positivo, perciò la nascita della Ceca e della successiva Cee sono sottolineate da sorrisi, folle inneggianti, applausi e una musica ormai apertamente trionfale. Mentre le immagini passano dal bianco e nero al colore, si moltiplicano i simboli positivi-rassicuranti: un campo verdeggiante al sole (prosperità), una donna incinta che si carezza la pancia (futuro), una mano che disegna palazzi su una lavagna (operosità) e ancora mamme e bambini sorridenti a vagonate. Il legame UE - pace viene spinto nell'inconscio dello spettatore con tutti i mezzi, pensando anche a neutralizzare possibili obiezioni con una falsa concessione: "Bruxelles - dice la voce fuori campo - a volte ci delude, ma [...] meglio combattere intorno a un tavolo, che su un campo di battaglia".  
Messaggio tradotto: prima di protestare contro la UE, ricordatevi che l'alternativa è la guerra, cioè la morte.

In chiusura, per rafforzare i concetti sparati fin qui nella testa dello spettatore, una bella domanda retorica che è anche un clamoroso imbroglio: "Quanti ricordano perché abbiamo voluto l'Europa?"

Intanto questo tipo di domande, tipico di un certo catechismo, non mira a creare un dialogo tra chi pone le domande e chi risponde, ma a imprimere nella memoria del secondo quanto voluto dal primo. Non si punta alla riflessione ed alla critica, ma a rafforzare degli automatismi. In questo caso non c'è una risposta esplicita come nel catechismo di Pio X, ma ce n'è una chiarissima ed implicita nei 140 secondi che precedono la domanda: "Abbiamo voluto l'Europa per la pace". Lo spettatore non deve pensare, non si vuole che pensi: deve solo tirare le somme di quanto ha visto.

Poi c'è l'imbroglio del verbo: "Abbiamo voluto". Chi? Quando? Tutti i trattati, da quello del 1951 fino a quello di Lisbona, in Italia e in gran parte dell'attuale UE sono stati sottoscritti dai governi senza interpellare la popolazione, e dove invece c'è stato un referendum, ha dato più volte esito contrario al percorso di Unione.

Per chiudere, l'imbroglio dell'oggetto in questione: "Abbiamo voluto l'Europa". No. L'Europa non si vuole. L'Europa c'è ed è un continente che va dal Portogallo alla Russia, dalla Scandinavia alla Grecia. Poi c'è l'organismo chiamato Ceca-Cee-Ue che non rappresenta tutta l'Europa, è cosa diversa dall'Europa e addirittura è in stato semiconflittuale con alcuni Stati sovrani europei (vedi la situazione Ucraina). L'identificazione tra Ue ed Europa è falsa e non ha alcun senso.
Proprio come questo spot.

Che poi, per spiegare i più di 60 anni di pace vissuti, fortunatamente, da alcuni stati della UE (perchè una buona parte di Europa ne ha vista eccome di guerra, dopo la fine della 2GM), sarebbe bastata una sola immagine:


Le stelle corrispondono, a grandi linee per motivi di grandezza dell'immagine, alle installazioni militari USA in Europa. Altro che Unione Europea! la pace del dopoguerra è dovuta alla massiccia presenza dell'esercito di una nazione extra-europea in due dei quattro paesi chiave del continente. Considerando anche l'esistenza di un organismo come la NATO, che è partecipato da diversi stati europei ma fuori dal controllo dell'Ue, si capisce come l'Unione con la pace c'entri ben poco.
Nonostante quanto afferma la propaganda-catechismo della Rai.

venerdì 8 agosto 2014

Alice nel paese della Spesa Pubblica

Immagine © Zenescope


Capita, spulciando i quotidiani online, di imbattersi in un articolo di Fabio Tamburini per il Corriere, in cui si intervista Roberto Poli, consulente aziendale, ex docente di finanza aziendale, ex presidente dell'Eni, membro del comitato europeo della Commissione Trilaterale e dal 2008 Cavaliere del Lavoro.
Il tema dell'intervista è il Babau che tanto indigna e spaventa il mondo dell'informazione e, di riflesso, gran parte degli italiani: il debito pubblico.

Il team guidato dal Cav. Poli ha effettuato un'analisi comparata sulla finanza pubblica da cui emerge che nel periodo tra il 1993 ed il 2013 l'Italia è, tra i grandi paesi europei, quello che ha conseguito il miglior avanzo primario (al netto degli interessi), pari a 585 miliardi di euro. La virtuosissima Germania, per dire, si è fermata a +80, mentre la Francia ha registrato un -479.

Italia +585
Germania +80 (dal 1995)
Francia -479

Ma come... l'Italia non era il paese della terribile spesa pubblica improduttiva? Degli sprechi? Quello che aveva vissuto al di sopra delle proprie possibilità e quindi meritava di subire la frusta dell'austerità? Davvero ora si dice che la P.A. italiana, per gli autorazzisti capace solo di corruzione, ladrocinio e inettitudine, è la più virtuosa nel rapporto tra spese ed entrate? E che questo non è il dato casuale di un breve periodo, ma degli ultimi 20 anni?
C'è qualcosa che non va...

Torniamo all'intervista, che prosegue chiarendo come il problema per le finanze pubbliche nasce quando alle cifre riportate sopra si aggiungono gli interessi sul debito (l'Italia impiega circa il 6% del Pil per questa voce, contro una media del 2,5% di Germania e Francia). «Un debitore con debito elevato - dice Poli - paga interessi più che proporzionali. E tutto questo è la conferma del peccato originale che l’Italia si trascina dal 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, sottoscritto pur avendo un parametro del tutto fuori controllo: il debito pubblico, che rappresentava il 104,7% del Pil contro il 42% della Germania, il 39,7% della Francia e il 45,5% della Spagna».

Fin qui il discorso è piuttosto lineare: nonostante da anni si stiano facendo sforzi notevoli per accumulare avanzo primario, l'importo degli interessi sul debito rende questi sforzi vani. Pare, quindi, che il problema non sia tanto il debito pubblico in sé, quanto piuttosto gli interessi che su questo paghiamo.
La soluzione indicata da Poli è piuttosto discutibile (i soliti tagli e la solita svendita di patrimonio immobiliare), ma la testimonianza è utile a smontare il luogo comune autorazzista dell'Italia spendacciona che non meritava il benessere goduto tra gli anni '80 e '90.

Ora è il caso di dare uno sguardo a questo grafico:

Fonte: www.keynesblog.com
Questa è la "foto" del rapporto tra debito e Pil nel periodo 1960 - 2010. Il tratto in rosso indica la fase storica in cui il debito pubblico è esploso. C'è anche indicato chiaramente il nome del detonatore e la data dell'innesco: 1981, divorzio Banca d'Italia - Tesoro.
Cos'è successo dal 1981 per causare un'impennata così importante del debito pubblico?
Una pioggia di auto blu e relative scorte?
Dieci anni di festini ininterrotti a spese dei contribuenti?
Una corsa all'acquisto di camionate di mutande con soldi pubblici da parte dei nostri onorevoli?

Anche, forse, ma soprattutto è successo che lo Stato ha iniziato a finanziarsi a prezzo di mercato. Dove prima poteva ricorrere alla Banca d'Italia, che comprava i titoli di Stato invenduti presso i privati mantenendo i tassi d'interesse sotto controllo, dopo il 1981 l'unico modo di trovare finanziamento era alzare i tassi d'interesse sui titoli di Stato ogni volta che il mercato non avesse trovato allettante l'offerta. Interessi più alti significa più denaro da dover restituire, quindi debito pubblico maggiore. La spesa per interessi passivi dopo questo capolavoro schizzò dai 28,7 miliardi di Lire del 1981 ai 147 del 1991.

Innescato il meccanismo che accelerava la crescita del debito pubblico, non appena il Pil ha decelerato il bilancio complessivo dello Stato ha iniziato ad andare a soqquadro (Da un rapporto debito/Pil del 56,8% nel 1980 al più inquietante 105,2% del 1992 fino al catastrofico 132,6% di quest'anno).

Purtroppo, nonostante l'evidente chiarezza di questi dati, nonostante abbiano sotto gli occhi un crimine di cui conoscono il colpevole (divorzio Bankitalia-Tesoro), il luogo (mercato dei titoli di Stato) e la data (1981), i media ripropongono ossessivamente la storiella del debito pubblico esploso esclusivamente per gli "sprechi" e per la "casta" (che ci sono stati, senza dubbio, ma non solo in Italia e non in misura tale da distruggere i conti pubblici nazionali). Ancora una volta quello che si vuole creare è un frame semplice da far introiettare ai cittadini più disimpegnati, perché creino delle associazioni automatiche del tipo:

Stato sprecone -> Debito Pubblico cattivo -> Crisi

A cosa porta la diffusione di questo pensiero? Intanto a facilitare il consenso in ampi strati sociali verso politiche di riduzione del perimetro dello Stato, identificato in modo spicciolo con il "male", senza minimamente valutare che Stato è anche sicurezza, energia, trasporti, sanità, scuola, in breve civiltà. L'altra conseguenza del frame innescato e rafforzato dai media è l'avvilimento delle energie nazionali, lo scoramento davanti a problemi che non hanno più cause e soluzioni, ma sono presentati come innati nella natura stessa dell'essere Italiani. Conseguenza della perdita di fiducia nell'identità nazionale e nelle capacità della Nazione di superare le crisi e garantire benessere ai cittadini è la maggiore propensione a sostenere politiche di ulteriore perdita di sovranità a favore di organismi proditoriamente presentati come "tecnici", quindi contemporaneamente "competenti" e "imparziali".

In breve, prima si è legata mani e piedi la Nazione costringendo lo Stato a farsi prestare denaro a tassi d'interesse insostenibili, poi quando il peso del debito derivante da questa menomazione è diventato insopportabile, si è accusato lo Stato stesso di non riuscire a correre, ingigantendo a dismisura l'attenzione su problemi sicuramente gravi e reali (sprechi, corruzione, costo della classe dirigente) ma responsabili solo in parte minoritaria del problema. Tutto questo per costringere verso un cammino di disgregazione dello Stato, che viene progressivamente spogliato sia della forza economica (privatizzazioni, vincoli vari, obiettivi fantasiosi ma obbligatori) che della sovranità politica (costante controllo delle autorità sovranazionali - UE - sulla normazione nazionale, prevalenza delle normative sovranazionali su quelle nazionali).

E gli sviluppi dell'ultima ora non fanno che confermare il tutto.