venerdì 25 novembre 2016

Referendum 4 dicembre: perché votare NO alla riforma della Costituzione



Il 4 dicembre voterò no.

Non per "mandare a casa Renzi" come sostengono in molti, perché l'attuale premier è solo un volto; liberarsi di lui per avere un volto diverso a sostenere le stesse politiche antinazionali fino al 2018 non ha molto senso.

E neppure, ovviamente, perché sono "contrario al cambiamento" o nostalgico della "vecchia politica": etichette, queste, che ben si adattano a narrazioni semplicistiche, ma che non significano assolutamente nulla in termini di contenuto.

Il mio NO a questa riforma (qui il testo attuale e le modifiche proposte) nasce col constatare come la stessa non assicuri niente di ciò che finge di promettere, e contenga al contrario alcuni elementi peggiorativi dal punto di vista della partecipazione democratica e della sovranità nazionale.

La riforma NON garantisce processi legislativi più rapidi, visto che amplia (art.70) le modalità di iter legislativi da una ad un numero imprecisato, il che porterà con molta probabilità ad una serie impressionante di conflitti di competenze tra le due Camere. E comunque la velocità di emanazione di leggi non ha niente a che fare con la correttezza giuridica e l'utilità delle stesse.

La riforma NON abolisce il Senato, ma dà vita ad un mostriciattolo sottratto alla diretta espressione del volere popolare e composto da consiglieri regionali e sindaci - protetti da immunità parlamentare - scelti da vertici di partito e potentati locali, con solo una misera foglia di fico a preservare una parvenza di rispetto del volere dei cittadini (art.57: i Senatori saranno scelti "in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi" [i consigli regionali]).
Non si sa perché, ma non siamo più degni di scegliere direttamente i rappresentanti di uno dei due rami del Parlamento.
Inoltre la decadenza automatica dall'incarico di Senatore alla scadenza del mandato locale di consiglieri e sindaci produrrà un continuo viavai di senatori che renderà complicatissimo il formarsi di maggioranze e l'approfondimento dei provvedimenti in esame.

La riforma NON taglia i costi della politica, o almeno li taglia di una porzione insignificante, perché l'intero apparato del Senato rimane operativo. In ogni caso quello dei costi della politica è uno dei cavalli di Troia che nascondono la volontà di limitare l'espressione del volere popolare. La politica ha dei costi che sono irrinunciabili e devono essere sostenuti dalla collettività, a meno di voler accettare una società in cui la funzione politica è esercitata solo da chi dispone di ingenti mezzi finanziari propri, o usa mezzi finanziari terzi per rappresentare interessi terzi. Più che abolire i costi bisognerebbe controllare e punire gli illeciti compiuti dai politici nell'esercizio delle loro funzioni.

La riforma NON aumenta la partecipazione dei cittadini. Intanto li priva della facoltà di eleggere direttamente una delle due Camere, poi triplica il numero di firme necessarie per presentare disegni di legge di iniziativa popolare (da 50 a 150mila). L'obbligo di discussione parlamentare non garantisce nulla, visto che in caso di permanenza di Italicum o simili il governo avrebbe una maggioranza così solida da poter bocciare automaticamente ogni legge popolare non in linea con il suo programma.

La riforma NON fa ordine tra Stato e Regioni; se è vero che riporta alla competenza dello Stato diverse materie attualmente concorrenti - atto di per sé positivo - è altrettanto vero che crea una discriminazione incredibile tra le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale (art.39). Le seconde infatti non solo conservano tutti i loro privilegi, ma guadagnano anche la facoltà di trattare con lo Stato in fase di revisione degli statuti, mentre le regioni ordinarie dovranno subire le decisioni del governo centrale. Inoltre le Regioni a statuto speciale sono escluse dall'applicazione dei limiti di spesa introdotti per le Regioni a statuto ordinario.

Come se non bastasse, c'è un altro frutto avvelenato all'interno di questa riforma, forse più pericoloso di tutti gli altri: come spiegato efficacemente in questo articolo, una vittoria del Sì il 4 dicembre comporterà una ulteriore enorme cessione di sovranità nazionale alla Ue. Il combinato degli art.55 e 70 innalza “la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea” a dovere costituzionale, introducendo in pratica l'obbligo costituzionale di appartenenza alla Ue.
Anche a fronte della più grave crisi di tutti i tempi, anche a fronte di una chiara volontà popolare, l'Italia della nuova riforma potrebbe non essere in grado di uscire dall'Unione Europea, perché tale scelta sarebbe incostituzionale.

Quest'ultimo punto, da solo, cancella ogni ipotetico portato positivo della riforma e rende il voto per il NO del 4 dicembre assolutamente indispensabile per difendere la sovranità nazionale ed il rispetto della volontà popolare.

Ulteriori approfondimenti sul referendum del 4 dicembre sono disponibili qui, qui e qui.

mercoledì 9 novembre 2016

The land of the free

Fonte: The New York Times

Dopo la prima inattesa fiammella di speranza nel Regno Unito, oggi si è accesa quella assai più grande e imprevista degli Stati Uniti, che eleggendo Donald Trump hanno dato molto più che una spallata al coacervo di interessi e relazioni private alimentate da beni pubblici che per assonanza storica chiamo Ancien Régime 2.0.

Questa oligarchia transnazionale, transideologica, transpartitica che stava e sta ancora lavorando al più gigantesco progetto di ingegneria sociale della storia sta assistendo, un pezzo dopo l'altro, alla crisi di rigetto delle nazioni rispetto agli innesti artificiali che vi sta inserendo. Se credeva possibile estorcere ai popoli i propri diritti fondamentali tramite il ricatto dell'inevitabilità e la sostituzione con diritti del tutto teorici, deve prendere atto che i popoli sono un osso più duro del previsto da masticare, e non esitano a correre rischi presentati come enormi (il fear project ostile alla Brexit, la demonizzazione scientifica contro Trump) se attraverso questi rischi scorgono la possibilità di affermare la propria volontà.

Non so, nessuno sa, cosa aspettarsi realmente dal nuovo Presidente degli Stati Uniti; molto probabilmente parte della forza rivoluzionaria mostrata in campagna elettorale verrà smorzata dal ruolo istituzionale e dalla macchina burocratica di Washington, ma il fatto stesso che sia il magnate di New York e non la "Predestinata" a risiedere per i prossimi quattro anni nello studio ovale pone un enorme freno oggettivo alla deriva turboliberista in cui si stava avvitando gran parte del pianeta.

E ricadute positive potrebbero venire anche dalla politica estera di Trump, che probabilmente disinnescherà la pericolosissima escalation di ostilità verso la Russia che aveva caratterizzato negli ultimi anni la politica estera di Obama, con qualche possibilità di avviare finalmente sul serio la pacificazione almeno del teatro di guerra siriano.

C'è da sperare anche che le posizioni meno interventiste all'estero di Trump tolgano ogni residua copertura all'agonizzante Unione Europea, accelerando il processo di sfaldamento già in atto.

Un ultimo pensiero va agli incorregibili opinionisti che già dipingono questo evento a tinte fosche, tirando in ballo la solita immagine della nazione che alza muri e distrugge ponti: piantatela! Siete così rapiti dalle vostre fantasie tardo-sessantottine da non rendervi conto che un popolo impoverito, umiliato, costretto a sopravvivere tramite debiti, Walmart economy o voucher vari - necessari a perpetrare la vostra sbornia globalista - è già rinchiuso tra mura infinitamente più spesse di quanto un confine potrà mai essere, ed ha tutto il diritto di reagire democraticamente per affermare il più basilare dei principi: uno Stato esiste allo scopo di provvedere al benessere dei suoi cittadini.

martedì 8 novembre 2016

Il piccolo bluff


Il simpatico scambio di battute di questi giorni tra il presidente della Commissione Ue Juncker e il premier italiano Renzi, descritto dalla stampa con quel poco di inchiostro avanzato dagli infiniti salamelecchi pro-Clinton (manco dovessimo votarlo noi, il presidente USA), ha un sapore tra il deprimente ed il grottesco. Perchè si sente lontano un miglio quanto sia artatamente costruito.

Ricapitoliamo i fatti: il governo italiano ha presentato una legge di stabilità (la vecchia manovra finanziaria) che "sfora" rispetto al deficit concordato con la Ue, e contemporaneamente Renzi ha iniziato ad alzare i toni verso la Commissione tirando in campo le tragedie del terremoto e degli immigrati, i cui costi intende escludere dal patto di stabilità.

Da Bruxelles è arrivata la risposta del sempre gioviale Juncker: «Sono del parere che la saggezza vuole che teniamo in conto i costi del terremoto e dei rifugiati, come è vero anche per la Grecia, in Italia. Ma i costi aggiuntivi delle politiche dedicate alle migrazioni e al terremoto in Italia sono lo 0,1% del Pil, mentre l’Italia ci aveva promesso di arrivare ad un deficit dell’1,7% nel 2017 ed ora ci propone un deficit del 2,4% in ragione del terremoto e dei rifugiati, quando i costi sono dello 0,1%». Juncker ha poi aggiunto: «[...] Non bisogna più dire, e se lo si vuole dire lo si può fare ma me ne frego in realtà, che le politiche di austerità vengono continuate da questa Commissione come erano state messe in atto in precedenza».

Apriti cielo.
Quel "me ne frego" ha provocato immediata indignazione e stracciar di vesti tra i nostri analisti politici... o almeno tra i pochi non completamente assorbiti dalla santificazione della candidata presidenta a stelle e strisce.

Peccato però che quelle parole non siano mai state pronunciate da Juncker:


Sentito? Juncker parla in francese, e le sue parole sono "je m'en fous", traducibili con "non m'importa", "non mi interessa", "me ne fotto" o anche "me ne frego". Perché i media italiani hanno scelto proprio l'ultima traduzione? Perché da noi quella frase si porta dietro una eco minacciosa, adattissima a scaldare gli animi. E di animi surriscaldati il governo italiano in questo momento ha un gran bisogno.

Da qui al 4 dicembre tutta la comunicazione del governo sarà mirata alla vittoria nel referendum costituzionale. Ogni provvedimento, ogni dichiarazione, ogni starnuto governativo sarà pianificato per recuperare quel gap che separa il Si dal No. Sembra questa la missione affidata dai vertici di Bruxelles al governo Renzi: portare avanti lo smantellamento dell'assetto istituzionale creato con la Costituzione del '48. E se per ottenere questo risultato l'Unione dovrà recitare la parte del cattivo contro cui far scagliare l'eroe ribelle, si presterà anche a questo.

Da questo piccolo bluff guadagneranno entrambe gli attori: la Commissione potrà dire a chi la accusa di troppa mollezza (come fa la Germania) che non ha avuto paura di alzare i toni, e lo stesso potrà dire il governo italiano cercando di rastrellare consensi tra i moltissimi cittadini stufi delle regole Ue. E' lo stesso film già visto con Tsipras, pericoloso sovversivo anti-austerità a parole, nei fatti docile becchino - per conto della Ue - di quegli stessi greci che gli avevano affidato il compito di combattere la Ue.

Dalle parti di Bruxelles sanno bene di godere di scarsissima popolarità in tutta Europa, né la cosa interessa loro perché l'Ancien Régime 2.0, come il suo predecessore, si illude di esistere al di sopra del volere e del consenso popolare.

Oltretutto l'esperienza insegna che un character come Renzi funziona meglio quando ha un avversario percepito come ottuso e pachidermico da combattere. In fondo l'ascesa del toscano è iniziata con la favoletta del giovane rottamatore contro la "vecchia politica", ed in questo momento moltissimi italiani non conoscono niente di più vecchio e polveroso della burocrazia unionista.

Come finirà davvero la vicenda della legge di stabilità, in fondo, ce l'ha già detto il commissario Moscovici: L'Ue aiuterà il governo amico di Renzi per arginare l'avanzata dei populisti. La flessibilità sarà concessa, magari un po' meno di quanto richiesto, giusto per salvare la faccia nei confronti dei paesi del nord, ma abbastanza perché il Viceré d'Italia possa continuare nel lavoro affidatogli.