mercoledì 27 gennaio 2016

La dismissione della democrazia: il caso dell'acqua


Privatizzazione acqua

Gli ultimi mesi del 2015 sono stati segnati in diverse regioni italiane da una certa agitazione da parte di attivisti, ambientalisti, alcuni sindaci e molti semplici cittadini. Il tema della protesta è la gestione delle risorse idriche locali, che nonostante il risultato del referendum del 2011 si avvia ad una pressochè totale privatizzazione.
Tutto ha inizio con la legge n.133 del 6 agosto 2008, che all'articolo 23-bis recepiva le direttive europee in tema di servizi pubblici locali di rilevanza economica. In pratica l'Unione spingeva per aprire il mercato dei servizi pubblici locali ai privati, secondo il dogma liberista che le è proprio. "Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati", recitava il comma 5 dell'articolo. Che poi sarebbe la solita supercazzola messa lì per far stare zitto chi si oppone alle privatizzazioni selvagge e illimitate. Che me ne faccio della proprietà di un bene, se la sua gestione è in mano a società intente a ricavarne il massimo profitto?

Ad ogni modo, contro la legge in questione era già attivo dal 2006 il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, che si è fatto promotore della raccolta firme per tre referendum contro la privatizzazione dell'acqua, due dei quali furono accolti dalla Corte Costituzionale.

Il referendum si votò il 12 e 13 giugno 2011 e vide una vittoria schiacciante dei si; il 95% dei votanti voleva l'abrogazione delle norme a favore delle privatizzazioni ed il ritorno all'acqua pubblica e scevra da profitti nella sua erogazione.
Grande successo, grandi festeggiamenti ma, come spesso accade dopo un referendum, poco di concreto per rispettare la volontà popolare.
Anzi.
 
La volontà di procedere sulla strada delle privatizzazioni dell'acqua, un business ricchissimo e ancora quasi tutto in mano agli enti locali, era talmente grande che già all'indomani del risultato referendario (che - in teoria - avrebbe valore vincolante per il legislatore) le sempre care istituzioni europee (Bce, Commissione) si preoccuparono di esortare l'Italia verso la “piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, fregandosene di fatto della volontà popolare appena espressa.
Ma si sa che dalle parti di Bruxelles il concetto di democrazia è apprezzato quanto le piattole.

Ad ogni modo, i nostri Viceré obbedirono prontamente ai desiderata dell'Unione, tentando di far rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta: sia il governo Berlusconi, che quelli Monti e Letta tentarono a vario modo di eludere il risultato del referendum. A completare l'opera però sarà il governo Renzi, che con la legge di Stabilità 2015 (il famigerato Sblocca-Italia) obbliga di fatto gli enti locali all'accorpamento dei servizi idrici, andando a favorire de facto quattro grandi aziende: Acea, Hera, A2A e Iren, tutte quotate in Borsa. Il processo di spoliazione del servizio idrico a danno della proprietà pubblica è in atto in queste settimane, nell'ovvio disinteresse dei media principali.
 
L'assoggettamento di un bene fondamentale come l'acqua alle logiche di mercato ed al profitto dei privati è un altro tassello della restaurazione dell'Ancien Régime in corso nel vecchio continente. Come ai tempi dei monarchi assoluti, i sudditi (ora consumatori) si avviano a perdere ogni tipo di sovranità a vantaggio di potentati (un tempo i vari gradi di aristocrazia, ora gruppi privati) sostanzialmente alieni ai territori ed alle società su cui esercitano il proprio potere, e perciò svincolati dal controllo popolare. 
Non importa quanto si protesti, non importa cosa si voti: il futuro è già stato tracciato per noi, e puzza tremendamente di passato.

lunedì 11 gennaio 2016

Quando un rantolo dal mondo del lavoro è abbastanza per festeggiare.



Partiamo dal tweet del caro leader, qui sopra.

Il 7 gennaio, con la tipica prudenza che lo contraddistingue, proclama il grande successo del suo Jobs Act, dimostrato dal calo della disoccupazione e prodromo alla ripartenza dell'Italia.
Il riferimento è, anche se non viene citato, all'ultimo rilevamento Istat, secondo cui il tasso di disoccupazione sarebbe sceso a novembre 2015 dello 0,2% arrivando all'11,3%.

Una buona notizia? Dipende dai punti di vista.
In termini assoluti, la disoccupazione a novembre ha raggiunto il minimo dal 2012, con quella giovanile in calo dell'1,2% rispetto ad ottobre. La parola chiave è "novembre". Ha senso dare tanta enfasi ad un rilevamento mensile, considerando che la materia dell'occupazione è influenzata da una enorme quantità di fattori, che spesso mostrano i loro effetti solo dopo periodi medio-lunghi? Cosa succede ampliando un po' i dati in esame, e guardando i risultati su base annua? Se la disoccupazione mantiene il suo trend (-14,3%, 479.000 persone in cerca di lavoro in meno), e l'occupazione fa segnare una crescita (+206.000 occupati), risalta il dato degli inattivi, ovvero di quelle persone che il lavoro nemmeno lo cercano più. Questi sono aumentati dell'1% (+138.000 rispetto a novembre 2014).
Ahia.

Non credo sia un buon segno quando un certo numero di persone smette di cercare lavoro non perché lo trova, ma perché perde ogni speranza. Purtroppo però, una parte del calo della disoccupazione tanto strombazzata dal governo è dovuta proprio a questo: l'aumento della disperazione. 
La stessa disperazione che porta sempre più italiani, soprattutto tra i 25 e i 40 anni, ad emigrare in cerca di fortuna, rinverdendo una triste tradizione che si sperava sconfitta. I dati dicono che tra il 2014 ed il 2015 sono emigrati più di 101.000 nostri compatrioti (+3,3% rispetto all'anno precedente, +49,3% rispetto al 2005). E fatico a credere che la fuga di italiani all'estero non abbia un peso nel calo della disoccupazione. 

Tanto più se si guarda ai dati sull'occupazione relativi alla fascia di età 25-34 anni, quella più importante perché riguarda l'immissione nel mercato del lavoro di forze fresche, teoricamente più adatte per formazione e attitudine a contribuire alla tanto agognata innovazione e in teoria più utili ad aumentare i consumi, visto che si tratta di giovani che devono ancora formare una famiglia, acquistare una casa, la prima auto etc. I dati parlano di una disoccupazione in aumento (+0,1%) come l'inattività (+0,9%), mentre l'occupazione scende dello 0,8%. Tutto il contrario di quanto auspicabile.

Quindi, ricapitolando, nell'"Italia che riparte" c'è una parte crescente di popolazione che ha smesso anche solo di cercare un impiego, mentre la generazione che già l'ex-Viceré Mario Monti definì perduta è costretta a vivacchiare di lavoretti precari e prestiti familiari, oppure può fare le valigie e fuggire altrove.
Magari cantando sulla falsariga dei propri nonni: "Ripartono i bastimenti..."