venerdì 26 settembre 2014

La favola del Jobs Act e del perfido Articolo18


Bisogna riformare il lavoro.

La parola d'ordine di questo autunno è chiara, e rimbalza come di consuetudine su tutti i media-megafono del potere governativo e limitrofo. Ovunque è un proliferare di appelli a "cambiare", "riformare", "superare". I più prudenti invece sostengono la necessità di "mettersi al passo". Di cosa? ma della mitologica "Europa", ovviamente.
Così la salvifica riforma che sconfiggerà in un sol colpo problemi strutturali, declino industriale e disoccupazione viene chiesta a gran voce dall'Ue (e te pareva), dal Presidente, da Confindustria, da Marchionne e chi più ne ha più ne metta.

Il ragionamento di fondo dei "riformisti" è che il mondo del lavoro in Italia è paralizzato da norme che impediscono alle aziende di crescere e assumere quei dipendenti che vorrebbero tanto assumere, ma non possono per paura di doverli pagare anche in caso di cicli economici negativi, ristrutturazioni o imprevisti dovuti alla velocità con cui i mercati mutano nel XXI secolo.

In particolare, il chiodo più doloroso piantato nel corpo delle aziende italiane si chiamerebbe Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, compreso nella Legge 300 del 20 maggio 1970. L'Articolo 18 regola i casi di licenziamento illegittimo dei lavoratori. Un lavoratore di un'azienda con almeno 15 dipendenti che venga licenziato a suo dire senza validi motivi, può fare causa al datore di lavoro. Qualora il giudice riscontri che l'allontanamento è avvenuto senza giusta causa, in base all'Articolo 18 può disporre il reinserimento in azienda del lavoratore licenziato, con il pagamento delle retribuzioni non percepite, oppure a scelta del dipendente può disporre il pagamento di un indennità economica pari a 15 mensilità.

Purtroppo non esistono statistiche precise sul numero di cause risolte in base all'art. 18, ma una stima verosimile, citata anche dal premier Renzi, parla di circa 40mila casi, di cui l'80% finiscono in un accordo e solo 3000 con il reintegro. 40mila casi su una platea di 8-9 milioni di persone (tanti sono i lavoratori teoricamente protetti da questa norma).  
E a causa di questi 40mila casi l'intero complesso industriale italiano sarebbe incapace di competere con il resto del mondo?
Davvero?
Davvero davvero?

Ci vuole proprio tanto pelo sullo stomaco per bersi come sensata una roba del genere.

Eppure, Mostrando una arroganza con pochi eguali, in questi giorni vediamo ovunque esponenti politici e relativo codazzo di giornalisti che ci spiegano come nella società attuale (quella che loro hanno contribuito a creare) non ci sia più spazio per pretese come quelle di lavorare a lungo con la stessa azienda, magari basando su quel lavoro un progetto di vita, una famiglia, addirittura (orrore!) l'acquisto di una casa.
No, - ci dice il politicante - i giovani di oggi devono abituarsi a cambiare più volte lavoro negli anni, devono accettare questa sfida che li accresce professionalmente e umanamente!
Beh, anche dormire sotto i ponti può essere visto come una sfida e può, forse, accrescere umanamente, ciò non toglie che qualsiasi essere umano mediamente intelligente cerchi di evitare quella condizione in ogni modo possibile.



C'è da ricordare anche che quando parlano di giovani, di future generazioni, di figli, questi signori stanno parlando dei NOSTRI giovani, delle NOSTRE future generazioni e dei NOSTRI figli, perché per i loro hanno in mente tutta un'altra vita che somiglia, guarda un po', a quella che dicono non sia più possibile.

Molto più semplicemente, l'articolo 18 è una delle poche vestigia rimaste di un'altra concezione di società, antitetica a quella in fase di perfezionamento in questo scorcio di nuovo secolo. Una società che aveva al centro l'essere umano e non il mercato, una società che vedeva il lavoro come mezzo per la realizzazione dell'uomo (la famosa Repubblica fondata sul lavoro) e non l'uomo come mezzo per la realizzazione di piani industriali.

Eppure, nonostante l'assurdità di vedere l'articolo 18 come ostacolo alla crescita, nonostante la violenza di voler imporre ad intere generazioni un futuro di incertezza e lavori precari, nonostante la premeditazione di un crimine grave quanto quello di strappare ai figli il benessere costruito per loro dai padri, si continuerà tetragoni per questa strada, comprimendo il più possibile i redditi dei ceti medio-bassi in una folle corsa al ribasso che è esattamente il contrario di quanto fatto negli ultimi150 anni.

Un tempo pensavo che la grande sfida lanciata dal decollo industriale dei Brics si sarebbe giocata cercando di far ascendere i loro ceti medio-bassi al livello dei nostri. Evidentemente invece il progetto mirava all'esatto opposto.

P.S. Per chi volesse qualche dato in più, segnalo questo articolo di Riccardo Realfonzo per Economiaepolitica.it
Riccardo Realfonzo
Riccardo Realfonzo

giovedì 4 settembre 2014

Ancora sull'emigrazione dei marchi italiani

Breve post per segnalare questo articolo a firma Mitt Dolcino, dove si ripercorre rapidamente la storia di alcune delle principali svendite cessioni all'estero di aziende italiane, focalizzandosi sui principali artefici (pochi, quasi sempre gli stessi) di quelle operazioni e sulle conseguenze (tristi) in termini di occupazione e crescita delle aziende cedute.

Ancora una volta è evidentissima l'urgenza di difendere ad ogni costo il patrimonio di aziende, tecnologia, infrastrutture che le generazioni precedenti alla nostra hanno saputo costruire nonostante guerre, occupazioni, crisi e competizione internazionale, e che da più di trent'anni ormai è bersaglio di un durissimo attacco volto a desertificare l'industria italiana riducendoci da terza potenza economica europea al rango di paese satellite, dipendente in tutto dall'estero.