lunedì 18 agosto 2014

Il catechismo Rai sull'Unione Europea: 1, L'Unione "nata per la pace"

Sono iniziati, con cronometrica precisione, poco prima della campagna elettorale per le Europee (ma la scusa ufficiale è che fossero stati pensati per pubblicizzare il semestre italiano di presidenza Ue). Hanno iniziato a fare capolino in tutti i canali Rai, alle ore più svariate, senza fermarsi nemmeno durante il periodo di par condicio, come se l'argomento Europa non fosse parte in causa durante le elezioni del parlamento europeo. Hanno sollevato un polverone abilmente nascosto dal mainstream ma ancora ben visibile su internet - basta cercare "spot europa rai" su un qualsiasi motore di ricerca - e continuano ad essere trasmessi anche a mesi di distanza dalle elezioni, nonostante il travolgente risultato pro-UE ormai certificato dalle urne.

Sono gli spot prodotti dalla tv di Stato nell'ambito del progetto Cantiere Europa, una serie di filmati di circa 2 minuti a metà tra il Cinegiornale Luce e i 2 minuti d'odio di 1984 che, affrontando varie tematiche del vivere comune, cercano in tutti i modi di inculcare il messaggio che l'Unione Europea ed il suo figlioccio euro sono non solo un bene, ma una necessità, senza cui vivremmo in un mondo di guerra, malattia, povertà e fame.

Una simpatica campagna terrorista in piena regola, insomma, pagata con il denaro dei contribuenti italiani (anche di quelli che di Euro e UE non vogliono più sentir parlare) ed impostata secondo gli schemi più classici della propaganda. Falsità comprese.

Tentiamo di smontare questa roba un po' per volta, ad iniziare dallo spot più surreale della serie:

L'Europa, una unione nata per la pace
Essendo spot mirati principalmente ad instillare pochi semplici concetti nel pubblico e non a fornire vera informazione, il pedale delle emozioni viene premuto a fondo già dai primi secondi, con una bella combinazione di musica angosciante e immagini immediatamente percepibili come negative.  
Il messaggio arriva forte e chiaro: l'Europa prima dell'Unione era una terra di morte e paura.

Poi, dopo 40 secondi di rovine, guerra e sciagure varie, la svolta: si passa improvvisamente ad immagini più rassicuranti, strumenti di precisione (bilance, orologi, occhiali), simboli di serietà e competenza. Arriva l'idea "straordinaria": nasce la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA). La musica inizia a prendere un tono più epico-solenne, mentre la voce fuori campo specifica subito che, a dispetto del nome marcatamente orientato verso il mondo industriale, la CECA "non nasce per ragioni economiche" ma per rendere "materialmente impossibile una nuova guerra".

Anche lo spettatore più distratto deve percepire emotivamente questo passaggio come positivo, perciò la nascita della Ceca e della successiva Cee sono sottolineate da sorrisi, folle inneggianti, applausi e una musica ormai apertamente trionfale. Mentre le immagini passano dal bianco e nero al colore, si moltiplicano i simboli positivi-rassicuranti: un campo verdeggiante al sole (prosperità), una donna incinta che si carezza la pancia (futuro), una mano che disegna palazzi su una lavagna (operosità) e ancora mamme e bambini sorridenti a vagonate. Il legame UE - pace viene spinto nell'inconscio dello spettatore con tutti i mezzi, pensando anche a neutralizzare possibili obiezioni con una falsa concessione: "Bruxelles - dice la voce fuori campo - a volte ci delude, ma [...] meglio combattere intorno a un tavolo, che su un campo di battaglia".  
Messaggio tradotto: prima di protestare contro la UE, ricordatevi che l'alternativa è la guerra, cioè la morte.

In chiusura, per rafforzare i concetti sparati fin qui nella testa dello spettatore, una bella domanda retorica che è anche un clamoroso imbroglio: "Quanti ricordano perché abbiamo voluto l'Europa?"

Intanto questo tipo di domande, tipico di un certo catechismo, non mira a creare un dialogo tra chi pone le domande e chi risponde, ma a imprimere nella memoria del secondo quanto voluto dal primo. Non si punta alla riflessione ed alla critica, ma a rafforzare degli automatismi. In questo caso non c'è una risposta esplicita come nel catechismo di Pio X, ma ce n'è una chiarissima ed implicita nei 140 secondi che precedono la domanda: "Abbiamo voluto l'Europa per la pace". Lo spettatore non deve pensare, non si vuole che pensi: deve solo tirare le somme di quanto ha visto.

Poi c'è l'imbroglio del verbo: "Abbiamo voluto". Chi? Quando? Tutti i trattati, da quello del 1951 fino a quello di Lisbona, in Italia e in gran parte dell'attuale UE sono stati sottoscritti dai governi senza interpellare la popolazione, e dove invece c'è stato un referendum, ha dato più volte esito contrario al percorso di Unione.

Per chiudere, l'imbroglio dell'oggetto in questione: "Abbiamo voluto l'Europa". No. L'Europa non si vuole. L'Europa c'è ed è un continente che va dal Portogallo alla Russia, dalla Scandinavia alla Grecia. Poi c'è l'organismo chiamato Ceca-Cee-Ue che non rappresenta tutta l'Europa, è cosa diversa dall'Europa e addirittura è in stato semiconflittuale con alcuni Stati sovrani europei (vedi la situazione Ucraina). L'identificazione tra Ue ed Europa è falsa e non ha alcun senso.
Proprio come questo spot.

Che poi, per spiegare i più di 60 anni di pace vissuti, fortunatamente, da alcuni stati della UE (perchè una buona parte di Europa ne ha vista eccome di guerra, dopo la fine della 2GM), sarebbe bastata una sola immagine:


Le stelle corrispondono, a grandi linee per motivi di grandezza dell'immagine, alle installazioni militari USA in Europa. Altro che Unione Europea! la pace del dopoguerra è dovuta alla massiccia presenza dell'esercito di una nazione extra-europea in due dei quattro paesi chiave del continente. Considerando anche l'esistenza di un organismo come la NATO, che è partecipato da diversi stati europei ma fuori dal controllo dell'Ue, si capisce come l'Unione con la pace c'entri ben poco.
Nonostante quanto afferma la propaganda-catechismo della Rai.

venerdì 8 agosto 2014

Alice nel paese della Spesa Pubblica

Immagine © Zenescope


Capita, spulciando i quotidiani online, di imbattersi in un articolo di Fabio Tamburini per il Corriere, in cui si intervista Roberto Poli, consulente aziendale, ex docente di finanza aziendale, ex presidente dell'Eni, membro del comitato europeo della Commissione Trilaterale e dal 2008 Cavaliere del Lavoro.
Il tema dell'intervista è il Babau che tanto indigna e spaventa il mondo dell'informazione e, di riflesso, gran parte degli italiani: il debito pubblico.

Il team guidato dal Cav. Poli ha effettuato un'analisi comparata sulla finanza pubblica da cui emerge che nel periodo tra il 1993 ed il 2013 l'Italia è, tra i grandi paesi europei, quello che ha conseguito il miglior avanzo primario (al netto degli interessi), pari a 585 miliardi di euro. La virtuosissima Germania, per dire, si è fermata a +80, mentre la Francia ha registrato un -479.

Italia +585
Germania +80 (dal 1995)
Francia -479

Ma come... l'Italia non era il paese della terribile spesa pubblica improduttiva? Degli sprechi? Quello che aveva vissuto al di sopra delle proprie possibilità e quindi meritava di subire la frusta dell'austerità? Davvero ora si dice che la P.A. italiana, per gli autorazzisti capace solo di corruzione, ladrocinio e inettitudine, è la più virtuosa nel rapporto tra spese ed entrate? E che questo non è il dato casuale di un breve periodo, ma degli ultimi 20 anni?
C'è qualcosa che non va...

Torniamo all'intervista, che prosegue chiarendo come il problema per le finanze pubbliche nasce quando alle cifre riportate sopra si aggiungono gli interessi sul debito (l'Italia impiega circa il 6% del Pil per questa voce, contro una media del 2,5% di Germania e Francia). «Un debitore con debito elevato - dice Poli - paga interessi più che proporzionali. E tutto questo è la conferma del peccato originale che l’Italia si trascina dal 1992, l’anno della firma del Trattato di Maastricht, sottoscritto pur avendo un parametro del tutto fuori controllo: il debito pubblico, che rappresentava il 104,7% del Pil contro il 42% della Germania, il 39,7% della Francia e il 45,5% della Spagna».

Fin qui il discorso è piuttosto lineare: nonostante da anni si stiano facendo sforzi notevoli per accumulare avanzo primario, l'importo degli interessi sul debito rende questi sforzi vani. Pare, quindi, che il problema non sia tanto il debito pubblico in sé, quanto piuttosto gli interessi che su questo paghiamo.
La soluzione indicata da Poli è piuttosto discutibile (i soliti tagli e la solita svendita di patrimonio immobiliare), ma la testimonianza è utile a smontare il luogo comune autorazzista dell'Italia spendacciona che non meritava il benessere goduto tra gli anni '80 e '90.

Ora è il caso di dare uno sguardo a questo grafico:

Fonte: www.keynesblog.com
Questa è la "foto" del rapporto tra debito e Pil nel periodo 1960 - 2010. Il tratto in rosso indica la fase storica in cui il debito pubblico è esploso. C'è anche indicato chiaramente il nome del detonatore e la data dell'innesco: 1981, divorzio Banca d'Italia - Tesoro.
Cos'è successo dal 1981 per causare un'impennata così importante del debito pubblico?
Una pioggia di auto blu e relative scorte?
Dieci anni di festini ininterrotti a spese dei contribuenti?
Una corsa all'acquisto di camionate di mutande con soldi pubblici da parte dei nostri onorevoli?

Anche, forse, ma soprattutto è successo che lo Stato ha iniziato a finanziarsi a prezzo di mercato. Dove prima poteva ricorrere alla Banca d'Italia, che comprava i titoli di Stato invenduti presso i privati mantenendo i tassi d'interesse sotto controllo, dopo il 1981 l'unico modo di trovare finanziamento era alzare i tassi d'interesse sui titoli di Stato ogni volta che il mercato non avesse trovato allettante l'offerta. Interessi più alti significa più denaro da dover restituire, quindi debito pubblico maggiore. La spesa per interessi passivi dopo questo capolavoro schizzò dai 28,7 miliardi di Lire del 1981 ai 147 del 1991.

Innescato il meccanismo che accelerava la crescita del debito pubblico, non appena il Pil ha decelerato il bilancio complessivo dello Stato ha iniziato ad andare a soqquadro (Da un rapporto debito/Pil del 56,8% nel 1980 al più inquietante 105,2% del 1992 fino al catastrofico 132,6% di quest'anno).

Purtroppo, nonostante l'evidente chiarezza di questi dati, nonostante abbiano sotto gli occhi un crimine di cui conoscono il colpevole (divorzio Bankitalia-Tesoro), il luogo (mercato dei titoli di Stato) e la data (1981), i media ripropongono ossessivamente la storiella del debito pubblico esploso esclusivamente per gli "sprechi" e per la "casta" (che ci sono stati, senza dubbio, ma non solo in Italia e non in misura tale da distruggere i conti pubblici nazionali). Ancora una volta quello che si vuole creare è un frame semplice da far introiettare ai cittadini più disimpegnati, perché creino delle associazioni automatiche del tipo:

Stato sprecone -> Debito Pubblico cattivo -> Crisi

A cosa porta la diffusione di questo pensiero? Intanto a facilitare il consenso in ampi strati sociali verso politiche di riduzione del perimetro dello Stato, identificato in modo spicciolo con il "male", senza minimamente valutare che Stato è anche sicurezza, energia, trasporti, sanità, scuola, in breve civiltà. L'altra conseguenza del frame innescato e rafforzato dai media è l'avvilimento delle energie nazionali, lo scoramento davanti a problemi che non hanno più cause e soluzioni, ma sono presentati come innati nella natura stessa dell'essere Italiani. Conseguenza della perdita di fiducia nell'identità nazionale e nelle capacità della Nazione di superare le crisi e garantire benessere ai cittadini è la maggiore propensione a sostenere politiche di ulteriore perdita di sovranità a favore di organismi proditoriamente presentati come "tecnici", quindi contemporaneamente "competenti" e "imparziali".

In breve, prima si è legata mani e piedi la Nazione costringendo lo Stato a farsi prestare denaro a tassi d'interesse insostenibili, poi quando il peso del debito derivante da questa menomazione è diventato insopportabile, si è accusato lo Stato stesso di non riuscire a correre, ingigantendo a dismisura l'attenzione su problemi sicuramente gravi e reali (sprechi, corruzione, costo della classe dirigente) ma responsabili solo in parte minoritaria del problema. Tutto questo per costringere verso un cammino di disgregazione dello Stato, che viene progressivamente spogliato sia della forza economica (privatizzazioni, vincoli vari, obiettivi fantasiosi ma obbligatori) che della sovranità politica (costante controllo delle autorità sovranazionali - UE - sulla normazione nazionale, prevalenza delle normative sovranazionali su quelle nazionali).

E gli sviluppi dell'ultima ora non fanno che confermare il tutto.