venerdì 16 dicembre 2016

Nasce il governo di trincea del Conte Gentiloni


Alla fine di una crisi-lampo, con una cerimonia sbrigativa ed a tratti surreale, il 12 dicembre è nato ed entrato in carica il governo del Conte Gentiloni. In teoria dovrebbe essere poco più che un segnaposto per occupare il tempo che ci divide dalle prossime elezioni, con l'unico scopo di coordinare i lavori parlamentari per l'approvazione di una nuova legge elettorale, ma il timore è che le cose non andranno affatto in questo modo.

Ci sono fondati motivi per credere che questo esecutivo rimarrà in carica fino a fine legislatura (febbraio 2018), e che in questi 14 mesi tenterà di costringere il più possibile entro binari obbligati qualsiasi governo dovesse uscire dalle future votazioni, in modo da disinnescare preventivamente qualsiasi tentazione "populista" da parte degli elettori. Dopo il clamoroso errore - nell'ottica dell'Ancien Régime 2.0 - del referendum del 4 dicembre, all'Italia non saranno più concesse distrazioni o deviazioni dal percorso stabilito.

Nella sua infinita grazia, il Régime ha tentato per alcuni anni di fare in modo che fosse il popolo italiano, sua sponte, a infilare il capo nel cappio delle tanto agognate "riforme strutturali", rendendo irreversibile l'assoggettamento all'Unione ed alla sua religione ordoliberista. Ma noi niente, testardi, abbiamo rigettato prima il tentativo tecnocratico di Monti, poi quello più guascone di Renzi.

Ora non rimane che forzare la mano ed ottenere il completo allineamento dell'Italia a colpi di (ulteriori) crisi, magari grazie alla collaborazione di un PdC di provata fede eurista e con limitate ambizioni personali - libero cioè della necessità di alimentare consenso per la propria figura - che, a seguito del deteriorarsi della situazione bancaria e magari della richiesta di Bruxelles di una manovra correttiva in primavera, si veda "costretto" a chiedere il generoso aiuto della Ue appellandosi al MES. A quel punto si entrerebbe in uno scenario di tipo greco, con le istituzioni nazionali ridotte a semplici passacarte delle decisioni euriste.

Dalla trincea in cui è stato catapultato, il Conte Gentiloni deve solo resistere quella manciata di mesi necessaria perché la situazione si comprometta abbastanza da giustificare l'intervento della cavalleria eurista. A quel punto il popolo potrà anche essere chiamato alle urne: dovesse anche vincere la più sovranista delle forze politiche, si ritroverà al governo con mani e piedi legati, priva di qualsiasi autonomia sul piano economico e di conseguenza su qualsiasi altro piano.

Scacco matto alla Nazione.

Al momento, sembra di vedere una sola variabile concreta che potrebbe far saltare questo scenario: la decisione della Corte costituzionale sui quesiti referendari relativi al Jobs Act. Se i quesiti venissero ammessi, si dovrebbe andare a votare tra aprile e giugno prossimi, e una bocciatura popolare della riforma del lavoro aprirebbe scenari completamente nuovi e al momento imprevedibili.




mercoledì 7 dicembre 2016

Referendum: la straripante vittoria del NO e la terza breccia nel muro globalista

Fonte: Repubblica.it

Che il No alla riforma avrebbe vinto era auspicabile, in qualche misura anche prevedibile. Che avrebbe stravinto quasi ovunque, da Aosta a Trieste a Lecce Ragusa e Oristano, era al contrario tutt'altro che scontato. E invece la notte del 4 Dicembre ci ha consegnato un'Italia compatta nel rigettare lo stravolgimento costituzionale. Un'Italia che ha affollato le urne come non si vedeva da moltissimo tempo, soprattutto dato che in questa votazione non c'era quorum, per urlare con chiarezza inaudita il proprio dissenso. Ora, al di là della soddisfazione e del sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, vale la pena tentare una riflessione sui contenuti di questo 60%.

In molti si sono affrettati, e lo faranno ancora, a spiegarci che la vittoria del No non è una vittoria contro l'Ue, né contro l'€uro, perchè parecchi di coloro che hanno bocciato la riforma sono tuttora favorevoli all'Unione ed alla moneta unica. Semmai - ci si dice - è un voto "di pancia" contro Renzi, contro la parabola sbruffona e caricaturale che il suo governo aveva preso nell'ultimo anno, contro i risultati scarsissimi quando non nulli delle sue roboanti riforme. In parte costoro hanno ragione.

Di certo la maggioranza dei votanti (sia per il No che per il Sì) non si è espressa sul merito del referendum. Pochi avevano un'idea chiara della riforma, pochissimi l'avevano letta e approfondita. Per tutti gli altri, il voto è diventato molto rapidamente una magnifica occasione per farsi sentire. Uno schiaffo in faccia al timoniere per avvisarlo che la rotta è sbagliata.

Quello del 4 dicembre è il voto dei giovani disoccupati o precari, delle partite Iva alla fame, degli esodati, dei voucher, dei lavoratori di aziende svendute a gruppi esteri e poi puntualmente delocalizzate, di famiglie costrette a vivere sulle spalle di genitori e parenti, "privilegiati" per avere ancora una pensione decente. E' il voto di piccoli artigiani e imprenditori costretti a chiudere a causa di leggi fatte apposta per sbatterli fuori dal mercato, di malati che si vedono rifiutare dallo Stato i contributi per i medicinali, che vedono l'ospedale del loro paese chiudere - razionalizzarsi, direbbe qualcuno - e sono costretti a fare decine di chilometri per trovare un letto. E' il voto di genitori che devono portare in dote alle scuole dei figli carta igienica, sapone e gessetti. E' il voto dei risparmiatori indotti a dare fiducia a piccole banche del loro territorio e poi vilmente traditi e derubati, di studenti sotto il cui naso il diritto allo Studio viene trasformato in banale avviamento a lavori sempre più instabili e meno gratificanti, con all'orizzonte l'unica umiliante alternativa di abbandonare la propria terra, i propri cari, il proprio mondo per cercare fortuna in terra straniera.

Può essere questa tutta colpa di Renzi? decisamente no. La vera colpa di Renzi è quella di essersi prestato a fare da volto a politiche pensate e volute altrove, scommettendo di poter soddisfare i desideri dell'Ancien Régime 2.0 che lo aveva scelto e sostenuto mantenendo contemporaneamente anche il consenso popolare.

Ciò non è possibile. Ormai si sprecano in Europa e oltre i casi di leader arrivati al governo per applicare il protocollo iperliberista - le famose "riforme strutturali" - e crollati rapidissimamente sotto i colpi dell'impopolarità. E' accaduto più volte in Spagna e in Italia, sta accadendo in Francia, in Gran Bretagna con la Brexit, perfino negli Stati Uniti per non parlare della Grecia. Il risultato del referendum di domenica fa parte della stessa onda che sta scuotendo tutta la parte di mondo detta Occidente. Non si tratta di paure, ignoranza o refrattarietà al cambiamento: è la sacrosanta, democratica rivolta delle classi sociali subalterne contro l'aggressione alla loro dignità, sicurezza e benessere. Con la Brexit, la stroncatura di Hillary Clinton e il No italiano ceto medio e popolare hanno aperto tre brecce nel muro globalista che li opprime, tre segnali di risveglio non ancora consapevole, forse, ma già abbastanza deciso da poter ignorare il fuoco di sbarramento mediatico messo regolarmente in campo dal Régime (i vari project fear attivati in tutte e tre le occasioni).

Da una situazione del genere, a giudicare dai precedenti storici che più vi si avvicinano, non c'è uscita se non tramite una completa inversione di rotta che restituisca alle classi subalterne la dignità ed il benessere perduto. In caso contrario la protesta non potrà che radicalizzarsi sempre di più mettendo definitivamente a rischio l'assetto democratico per come lo conosciamo dal dopoguerra.
Alla fine il Régime cadrà, com'è sempre caduto in passato. E' ancora in tempo per decidere come.

venerdì 25 novembre 2016

Referendum 4 dicembre: perché votare NO alla riforma della Costituzione



Il 4 dicembre voterò no.

Non per "mandare a casa Renzi" come sostengono in molti, perché l'attuale premier è solo un volto; liberarsi di lui per avere un volto diverso a sostenere le stesse politiche antinazionali fino al 2018 non ha molto senso.

E neppure, ovviamente, perché sono "contrario al cambiamento" o nostalgico della "vecchia politica": etichette, queste, che ben si adattano a narrazioni semplicistiche, ma che non significano assolutamente nulla in termini di contenuto.

Il mio NO a questa riforma (qui il testo attuale e le modifiche proposte) nasce col constatare come la stessa non assicuri niente di ciò che finge di promettere, e contenga al contrario alcuni elementi peggiorativi dal punto di vista della partecipazione democratica e della sovranità nazionale.

La riforma NON garantisce processi legislativi più rapidi, visto che amplia (art.70) le modalità di iter legislativi da una ad un numero imprecisato, il che porterà con molta probabilità ad una serie impressionante di conflitti di competenze tra le due Camere. E comunque la velocità di emanazione di leggi non ha niente a che fare con la correttezza giuridica e l'utilità delle stesse.

La riforma NON abolisce il Senato, ma dà vita ad un mostriciattolo sottratto alla diretta espressione del volere popolare e composto da consiglieri regionali e sindaci - protetti da immunità parlamentare - scelti da vertici di partito e potentati locali, con solo una misera foglia di fico a preservare una parvenza di rispetto del volere dei cittadini (art.57: i Senatori saranno scelti "in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi" [i consigli regionali]).
Non si sa perché, ma non siamo più degni di scegliere direttamente i rappresentanti di uno dei due rami del Parlamento.
Inoltre la decadenza automatica dall'incarico di Senatore alla scadenza del mandato locale di consiglieri e sindaci produrrà un continuo viavai di senatori che renderà complicatissimo il formarsi di maggioranze e l'approfondimento dei provvedimenti in esame.

La riforma NON taglia i costi della politica, o almeno li taglia di una porzione insignificante, perché l'intero apparato del Senato rimane operativo. In ogni caso quello dei costi della politica è uno dei cavalli di Troia che nascondono la volontà di limitare l'espressione del volere popolare. La politica ha dei costi che sono irrinunciabili e devono essere sostenuti dalla collettività, a meno di voler accettare una società in cui la funzione politica è esercitata solo da chi dispone di ingenti mezzi finanziari propri, o usa mezzi finanziari terzi per rappresentare interessi terzi. Più che abolire i costi bisognerebbe controllare e punire gli illeciti compiuti dai politici nell'esercizio delle loro funzioni.

La riforma NON aumenta la partecipazione dei cittadini. Intanto li priva della facoltà di eleggere direttamente una delle due Camere, poi triplica il numero di firme necessarie per presentare disegni di legge di iniziativa popolare (da 50 a 150mila). L'obbligo di discussione parlamentare non garantisce nulla, visto che in caso di permanenza di Italicum o simili il governo avrebbe una maggioranza così solida da poter bocciare automaticamente ogni legge popolare non in linea con il suo programma.

La riforma NON fa ordine tra Stato e Regioni; se è vero che riporta alla competenza dello Stato diverse materie attualmente concorrenti - atto di per sé positivo - è altrettanto vero che crea una discriminazione incredibile tra le Regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale (art.39). Le seconde infatti non solo conservano tutti i loro privilegi, ma guadagnano anche la facoltà di trattare con lo Stato in fase di revisione degli statuti, mentre le regioni ordinarie dovranno subire le decisioni del governo centrale. Inoltre le Regioni a statuto speciale sono escluse dall'applicazione dei limiti di spesa introdotti per le Regioni a statuto ordinario.

Come se non bastasse, c'è un altro frutto avvelenato all'interno di questa riforma, forse più pericoloso di tutti gli altri: come spiegato efficacemente in questo articolo, una vittoria del Sì il 4 dicembre comporterà una ulteriore enorme cessione di sovranità nazionale alla Ue. Il combinato degli art.55 e 70 innalza “la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea” a dovere costituzionale, introducendo in pratica l'obbligo costituzionale di appartenenza alla Ue.
Anche a fronte della più grave crisi di tutti i tempi, anche a fronte di una chiara volontà popolare, l'Italia della nuova riforma potrebbe non essere in grado di uscire dall'Unione Europea, perché tale scelta sarebbe incostituzionale.

Quest'ultimo punto, da solo, cancella ogni ipotetico portato positivo della riforma e rende il voto per il NO del 4 dicembre assolutamente indispensabile per difendere la sovranità nazionale ed il rispetto della volontà popolare.

Ulteriori approfondimenti sul referendum del 4 dicembre sono disponibili qui, qui e qui.

mercoledì 9 novembre 2016

The land of the free

Fonte: The New York Times

Dopo la prima inattesa fiammella di speranza nel Regno Unito, oggi si è accesa quella assai più grande e imprevista degli Stati Uniti, che eleggendo Donald Trump hanno dato molto più che una spallata al coacervo di interessi e relazioni private alimentate da beni pubblici che per assonanza storica chiamo Ancien Régime 2.0.

Questa oligarchia transnazionale, transideologica, transpartitica che stava e sta ancora lavorando al più gigantesco progetto di ingegneria sociale della storia sta assistendo, un pezzo dopo l'altro, alla crisi di rigetto delle nazioni rispetto agli innesti artificiali che vi sta inserendo. Se credeva possibile estorcere ai popoli i propri diritti fondamentali tramite il ricatto dell'inevitabilità e la sostituzione con diritti del tutto teorici, deve prendere atto che i popoli sono un osso più duro del previsto da masticare, e non esitano a correre rischi presentati come enormi (il fear project ostile alla Brexit, la demonizzazione scientifica contro Trump) se attraverso questi rischi scorgono la possibilità di affermare la propria volontà.

Non so, nessuno sa, cosa aspettarsi realmente dal nuovo Presidente degli Stati Uniti; molto probabilmente parte della forza rivoluzionaria mostrata in campagna elettorale verrà smorzata dal ruolo istituzionale e dalla macchina burocratica di Washington, ma il fatto stesso che sia il magnate di New York e non la "Predestinata" a risiedere per i prossimi quattro anni nello studio ovale pone un enorme freno oggettivo alla deriva turboliberista in cui si stava avvitando gran parte del pianeta.

E ricadute positive potrebbero venire anche dalla politica estera di Trump, che probabilmente disinnescherà la pericolosissima escalation di ostilità verso la Russia che aveva caratterizzato negli ultimi anni la politica estera di Obama, con qualche possibilità di avviare finalmente sul serio la pacificazione almeno del teatro di guerra siriano.

C'è da sperare anche che le posizioni meno interventiste all'estero di Trump tolgano ogni residua copertura all'agonizzante Unione Europea, accelerando il processo di sfaldamento già in atto.

Un ultimo pensiero va agli incorregibili opinionisti che già dipingono questo evento a tinte fosche, tirando in ballo la solita immagine della nazione che alza muri e distrugge ponti: piantatela! Siete così rapiti dalle vostre fantasie tardo-sessantottine da non rendervi conto che un popolo impoverito, umiliato, costretto a sopravvivere tramite debiti, Walmart economy o voucher vari - necessari a perpetrare la vostra sbornia globalista - è già rinchiuso tra mura infinitamente più spesse di quanto un confine potrà mai essere, ed ha tutto il diritto di reagire democraticamente per affermare il più basilare dei principi: uno Stato esiste allo scopo di provvedere al benessere dei suoi cittadini.

martedì 8 novembre 2016

Il piccolo bluff


Il simpatico scambio di battute di questi giorni tra il presidente della Commissione Ue Juncker e il premier italiano Renzi, descritto dalla stampa con quel poco di inchiostro avanzato dagli infiniti salamelecchi pro-Clinton (manco dovessimo votarlo noi, il presidente USA), ha un sapore tra il deprimente ed il grottesco. Perchè si sente lontano un miglio quanto sia artatamente costruito.

Ricapitoliamo i fatti: il governo italiano ha presentato una legge di stabilità (la vecchia manovra finanziaria) che "sfora" rispetto al deficit concordato con la Ue, e contemporaneamente Renzi ha iniziato ad alzare i toni verso la Commissione tirando in campo le tragedie del terremoto e degli immigrati, i cui costi intende escludere dal patto di stabilità.

Da Bruxelles è arrivata la risposta del sempre gioviale Juncker: «Sono del parere che la saggezza vuole che teniamo in conto i costi del terremoto e dei rifugiati, come è vero anche per la Grecia, in Italia. Ma i costi aggiuntivi delle politiche dedicate alle migrazioni e al terremoto in Italia sono lo 0,1% del Pil, mentre l’Italia ci aveva promesso di arrivare ad un deficit dell’1,7% nel 2017 ed ora ci propone un deficit del 2,4% in ragione del terremoto e dei rifugiati, quando i costi sono dello 0,1%». Juncker ha poi aggiunto: «[...] Non bisogna più dire, e se lo si vuole dire lo si può fare ma me ne frego in realtà, che le politiche di austerità vengono continuate da questa Commissione come erano state messe in atto in precedenza».

Apriti cielo.
Quel "me ne frego" ha provocato immediata indignazione e stracciar di vesti tra i nostri analisti politici... o almeno tra i pochi non completamente assorbiti dalla santificazione della candidata presidenta a stelle e strisce.

Peccato però che quelle parole non siano mai state pronunciate da Juncker:


Sentito? Juncker parla in francese, e le sue parole sono "je m'en fous", traducibili con "non m'importa", "non mi interessa", "me ne fotto" o anche "me ne frego". Perché i media italiani hanno scelto proprio l'ultima traduzione? Perché da noi quella frase si porta dietro una eco minacciosa, adattissima a scaldare gli animi. E di animi surriscaldati il governo italiano in questo momento ha un gran bisogno.

Da qui al 4 dicembre tutta la comunicazione del governo sarà mirata alla vittoria nel referendum costituzionale. Ogni provvedimento, ogni dichiarazione, ogni starnuto governativo sarà pianificato per recuperare quel gap che separa il Si dal No. Sembra questa la missione affidata dai vertici di Bruxelles al governo Renzi: portare avanti lo smantellamento dell'assetto istituzionale creato con la Costituzione del '48. E se per ottenere questo risultato l'Unione dovrà recitare la parte del cattivo contro cui far scagliare l'eroe ribelle, si presterà anche a questo.

Da questo piccolo bluff guadagneranno entrambe gli attori: la Commissione potrà dire a chi la accusa di troppa mollezza (come fa la Germania) che non ha avuto paura di alzare i toni, e lo stesso potrà dire il governo italiano cercando di rastrellare consensi tra i moltissimi cittadini stufi delle regole Ue. E' lo stesso film già visto con Tsipras, pericoloso sovversivo anti-austerità a parole, nei fatti docile becchino - per conto della Ue - di quegli stessi greci che gli avevano affidato il compito di combattere la Ue.

Dalle parti di Bruxelles sanno bene di godere di scarsissima popolarità in tutta Europa, né la cosa interessa loro perché l'Ancien Régime 2.0, come il suo predecessore, si illude di esistere al di sopra del volere e del consenso popolare.

Oltretutto l'esperienza insegna che un character come Renzi funziona meglio quando ha un avversario percepito come ottuso e pachidermico da combattere. In fondo l'ascesa del toscano è iniziata con la favoletta del giovane rottamatore contro la "vecchia politica", ed in questo momento moltissimi italiani non conoscono niente di più vecchio e polveroso della burocrazia unionista.

Come finirà davvero la vicenda della legge di stabilità, in fondo, ce l'ha già detto il commissario Moscovici: L'Ue aiuterà il governo amico di Renzi per arginare l'avanzata dei populisti. La flessibilità sarà concessa, magari un po' meno di quanto richiesto, giusto per salvare la faccia nei confronti dei paesi del nord, ma abbastanza perché il Viceré d'Italia possa continuare nel lavoro affidatogli.

mercoledì 19 ottobre 2016

Voucher is the new black



È comprensibile, data la natura felicemente asservita del giornalismo nostrano, che tra le notizie di ieri si sia deciso di riservare la massima attenzione al viaggio americano di Renzi, con ricco contorno di servizi sul cuoco Batali in Crocs, sulle facezie di Benigni e sugli agnolotti degustati durante la cena alla Casa Bianca, senza tralasciare soddisfazione per i soliti, triti luoghi comuni con cui all'estero si è soliti carezzare l'ospite italiano (Tutta la stima del mondo per Sofia Loren, ma il presidente degli Stati Uniti dovrebbe prendere nota che anche in Italia corre l'anno del Signore 2016 e il 1966 è passato da un pezzo).

Con l'imperativo di occupare tutto lo spazio possibile con l'evento d'oltreoceano, i media hanno potuto dedicare infinitamente meno attenzione all'altra notizia di ieri, altrettanto importante per il nostro immediato futuro: la pubblicazione degli ultimi dati dell'Osservatorio INPS sul precariato.
Che sono sconfortanti.

Nel periodo gennaio-agosto 2016, rispetto agli stessi mesi dello scorso anno, questa è la situazione:

-8,5% di assunzioni in generale,
-32,9% di assunzioni a tempo indeterminato,
-35,4% di trasformazioni dei contratti da determinato a indeterminato,
+28,3% di licenziamenti «per giusta causa o giustificato motivo soggettivo»
+2,5% di contratti a tempo determinato,
+18% di contratti di apprendistato,
+35,9% di acquisti di voucher.

L'Istituto è molto chiaro nella spiegazione del tracollo delle assunzioni a tempo indeterminato: "il calo va considerato in relazione al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui dette assunzioni potevano beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni". Ovvero finché il doping governativo è stato in vigore, i datori di lavoro hanno approfittato del megasconto fiscale per assumere, mentre ora stanno smettendo in proporzione alla riduzione del bonus. Non solo, ma sembra anche che stiano sfruttando la maggiore tolleranza in tema di licenziamenti ottenuta con il Jobs Act per liberarsi di una quota significativa di dipendenti.

Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, perché da tempo è chiaro come l'obiettivo di lungo termine del redivivo Ancien Régime che manovra gli esecutivi di gran parte d'Europa sia quello di arrivare ad un sistema del lavoro sempre più precario e volatile, che azzeri e seppellisca le conquiste ottenute dai lavoratori in due secoli di lotte massimizzando i profitti propri e dei propri sodali.

L'epitome della distruzione del lavoro come fonte di stabilità, dignità e benessere del lavoratore, per tornare a farne mero strumento di sussistenza, sta tutta nella vicenda dei voucher.
Nati come strumento dalla limitatissima applicabilità (l'uso era limitato a sole colf e badanti, oltre a piccoli lavoretti come ripetizioni e giardinaggio), via via l'uso dei voucher è stato esteso ad una casistica sempre più estesa, finché con l'arrivo dell'esecutivo turboliberista di Monti non è stato definitivamente sdoganato per ogni tipo di attività e settore produttivo. Ciò che era stato spacciato come piccolo espediente per far emergere un po' di lavoro nero in settori difficili e marginali in meno di 5 anni è diventato un poderoso strumento di legalizzazione dello sfruttamento a disposizione di ogni datore di lavoro (qui per approfondimenti sulla storia dei voucher).

Grazie ai voucher è possibile disporre di mano d'opera a bassissimo costo (perchè un voucher costa 10 euro ma non ha vincoli di durata della prestazione, quindi può essere usato per pagare anche 2 o 3 ore di lavoro), priva di ogni tutela prevista dai contratti (no ferie, malattia, tredicesima, maternità) e sostituibile in qualsiasi momento senza penali né indennità di disoccupazione. Il tutto rimanendo perfettamente nella legalità.

Tanto allettante è il voucher per i datori di lavoro, che la sua diffusione ha conosciuto una crescita esponenziale negli anni:


Davanti ad una esplosione così netta del fenomeno il governo ha deciso di recente di introdurre alcuni blandi correttivi, tanto per conservare una parvenza di interesse nei destini dei lavoratori; comunque sempre troppo poco rispetto all'esistenza di uno strumento che, per il solo fatto di aver creato un nuovo "Ultimo Stato" di lavoratori ancora più svantaggiati rispetto alle già penalizzate partite iva ed ai precari, andrebbe semplicemente abolito.

venerdì 7 ottobre 2016

"Volete la flessibilità sui conti pubblici? Votate populista". Ce lo chiede l'Europa.

Mais non, Piercarlò, non sc'hò più neanche un eurò!

Premessa: Personalmente, sono convinto che la "flessibilità" sui conti concessa dalla Ue sia uno strumento di controllo ancora peggiore dell'austerità. Come direbbe Chomsky la rana Italia (o Francia, o Spagna) è comunque bloccata nella pentola, e il Régime si diverte ad abbassare un po' la temperatura mentre continua comunque a bollirla. Ma visto che i massimi livelli delle nostre autorità ci dicono che è importantissimissimo chiedere, pregare, supplicare per avere la concessione di spendere questa benedetta manciata di soldi nostri, fingiamo che abbiano ragione.

Quindi l'obiettivo è ottenere la flessibilità. Impresa ardua dato che a Bruxelles sono famosi per avere braccia troppo corte per raggiungere il portafogli, ma necessaria all'esecutivo per poter distribuire qualche altro fantasioso bonus e rafforzare la campagna del "tutto va bene". Dopo intensi brainstorming, si decide di invocare la "flessibilità da emergenza" e si fa una bella lista di tutte le disgrazie che stanno affliggendo il Paese: ci si buttano dentro gli immigrati, i terremotati, le scuole da ricostruire (perchè come fai a dire di no ai bambini?), un po' di tutto insomma, e si fa in modo che le lamentazioni arrivino a Bruxelles.


Ma la notte porta consiglio, e qualche giorno dopo, lo stesso Moscovici cambia parere: "[In Italia] c’è una minaccia populista. E per questo sosteniamo gli sforzi di Renzi affinché sia un partner forte all’interno dell’Ue". (qui l'intervista originale rilasciata a Bloomberg, la domanda sull'Italia è a 10:20).

La flessibilità quindi potrebbe arrivare, ottimo... solo che non arriverà perché si ritengono fondate le richieste dell'esecutivo italiano, ma perché in Italia c'è un problema di populismo.

Se non ci fosse "una minaccia populista", l'Unione se ne fregherebbe di concedere qualsivoglia flessibilità.

Per avere la flessibilità dall'Unione, bisogna che la "minaccia populista" sia forte.

Per costringere la Ue a concedere flessibilità e un minimo di ossigeno all'economia, bisogna sostenere con ogni mezzo i partiti che la Ue considera populisti.

Più facile di così...

mercoledì 5 ottobre 2016

Allacciate le cinture di sicurezza: turbolenze in arrivo


Dopo una prima metà dell'anno a bearsi nel placido stagno di cazzate ottimisteggianti (è arrivata la ripresa! ripartono le assunzioni! L'Ue ci dà un sacco di flessibilità! Apple apre un megacentro di sviluppo a Napoli!), con solo qualche fastidiosa nuvola in lontananza (tipo la Brexit, ma tanto ora vedrai come la pagano, quegli sciocchi inglesi!), gli ultimi mesi del 2016 stanno portando un brusco risveglio e i prodromi di un 2017 che si annuncia ancora più complicato dell'anno in corso.

Il governo si trova sempre più stritolato tra ciò che vorrebbe fare (spesa pubblica per sopire il malumore crescente nel paese e riguadagnare un po' di consenso perduto) e ciò che è costretto a fare (tagli alla stessa spesa pubblica e aumenti occulti della tassazione). E si trova in questa scomodissima posizione proprio a causa dei trattati che difende a spada tratta. I famosi vincoli Ue stanno soffocando non solo l'economia, ma anche la governabilità in Italia e in molti degli altri stati membri, rendendo indigesto nel giro di pochi mesi agli occhi dei cittadini qualsiasi esecutivo. Basti pensare all'entusiasmo con cui venne accolto il governo Monti nel 2011 ed al sollievo generale seguito alle sue dimissioni meno di un anno e mezzo dopo.

La scommessa di Renzi, una volta nominato Viceré d'Italia, era quella di portare avanti rapidamente l'agenda ordoliberista programmata per tutti gli stati della Ue, ottenendone in cambio qualche scampolo di flessibilità per mantenere la propria popolarità su livelli accettabili. Niente di strano, fa parte dell'armamentario base di ogni politico una certa quota di spesa per ingraziarsi i favori degli elettori. Nei primi mesi ci era anche riuscito, ad esempio con il bonus degli 80 euro, grazie a cui aveva potuto centrare il pazzesco 40,8% delle elezioni europee 2014. E su questa scia si è continuato anche nel 2015, sfruttando ogni occasione possibile per strappare ai suoi superiori (il grumo di interessi finanziari di stanza a Bruxelles) briciole di denaro utili a mascherare il sostanziale collasso della fu quinta potenza economica mondiale.

Ma il giocattolo si sta rompendo e i bluff seminati nel tempo stanno venendo impietosamente scoperti: dalla crescita ampiamente al di sotto delle stime, ai dati sull'occupazione drogati a colpi di voucher, al sistema bancario in stato pre-fallimentare. Il tutto mentre dall'Unione arriva il messaggio che la flessibilità disponibile è terminata. E come se non bastasse a breve il risultato del referendum costituzionale potrebbe assestare il colpo di grazia al renzismo.

Se la luna di miele tra governo e Nazione è già finita, altrettanto sembra stare accadendo tra governo ed Unione, dove i tre portavoce principali dell'Ancien Régime 2.0 hanno iniziato a riservare al nostro PdC lo stesso trattamento, misto di insofferenza e spocchia, che venne riservato a Berlusconi appena prima della sua deposizione. Ed anche la stampa estera "di peso" che un tempo sosteneva il premier sembra in fase di riposizionamento. In questo contesto sfavorevole, il nostro esecutivo sta letteralmente raschiando il fondo del barile per trovare scuse con cui giustificare un minimo di spesa. Tutto, dalle ondate migratorie al terremoto nel centro Italia all'edilizia scolastica, diventa pretesto per aggirare le regole unioniste senza denunciare apertamente la loro illogicità.
Per quanto riguarda il tenere i piedi in due staffe, il buon premier non ha nulla da imparare.

Il problema è che tutta la strategia governativa è improntata al semplice comprare tempo, ma più tempo passa più la situazione diventa ingestibile: i dati sul Pil continuano a confermarsi ampiamente al di sotto delle previsioni e non possono migliorare magicamente, né l'impatto dei costi legati alla cosiddetta "accoglienza" (sia quelli economici, che quelli sociali) possono farsi meno gravosi, dal momento che il resto dei paesi Ue sta iniziando a stringere le maglie cercando di filtrare i flussi in arrivo per accogliere il necessario respingendo (ovvero lasciando a noi) il problematico e l'indesiderabile. Aggiungiamo alla ricetta il clamoroso, ma "stranamente" passato sotto silenzio mainstream, flop delle privatizzazioni ed otterremo un quadro generale desolante.

Il governo ha assolutamente bisogno almeno di un successo politico a fronte del disastro economico, e sta puntando tutte le sue carte sul referendum del 4 dicembre, mobilitando ogni risorsa a disposizione per poter portare a casa il risultato. Parallelamente però sembra essere in atto una sorta di "Piano B", che passa per lo screditamento di ogni alternativa futura (in particolare quella stellata) in modo da potersi riproporre, in perfetta logica TINA, come unico esecutore possibile del programma del Régime in Italia.

In ogni caso, la data del 4 dicembre si configura sempre più come momento chiave della vita politica nazionale, le cui ripercussioni potrebbero assestare un colpo importante anche oltreconfine, in particolare dalle parti di Bruxelles.

lunedì 5 settembre 2016

Il Fertility Day e il furto del tempo

Una delle immagini promozionali del Fertility Day
In un paese abituato a subire lo spettacolo di feroci polemiche su qualsiasi cosa, non poteva passare indenne l'ultima iniziativa del Ministero della Salute, una campagna informativa sui problemi della fertilità e sul tema della denatalità che dovrebbe (a meno di revoche dell'ultimo minuto) culminare con una giornata dedicata il 22 settembre prossimo, sulla scorta delle varie "giornate nazionali" che da qualche tempo riempiono il calendario.

Valutando la notizia per quello che è, non si riesce a capire da dove possa scaturire tanto astio: il Ministero della Salute tenta di sensibilizzare la popolazione su un problema reale, che riguarda la salute di moltissimi cittadini (come per tutto, anche per la fertilità sono opportune un minimo di conoscenza e prevenzione delle eventuali problematiche che potrebbero insorgere nel tempo) ed il futuro di tutti.

Si può dire che la campagna ideata non sia il massimo della brillantezza, ed è vero; che alcune delle immagini e degli slogan scelti siano involontariamente comici, verissimo; che lo stesso nome dell'evento, con questo inglese lanciato a casaccio in puro stile renziano (Jobs Act anyone?), sia sintomo di un ostinato e penoso provincialismo. Sarebbe bastata qualche pernacchia e una risata per liquidare il tutto, passando a cose più serie.

L'unica critica davvero sensata riguarda la palese contraddizione di un governo (ma vale anche per i precedenti almeno dalla fine degli anni 80) che parla di fertilità e aumento demografico con qualche spot, mentre non fa nulla sul piano pratico né per aiutare le coppie con problemi di fertilità, né per aiutare le famiglie che figli ne hanno e devono sostenerne gli onerosi costi.

In tre righe, centrato in pieno il vero problema del Fertility Day.
Ma ciò a cui si sta assistendo va parecchio oltre la normale critica ad una iniziativa discutibile, e finisce per sfiorare l'isteria collettiva: si parla di offesa alle donne, di ritorno del concetto retrivo e maschilista di donna-fattrice, di insulto al femminismo, a chi non può avere figli e quant'altro. Una reazione del genere non è spiegabile solo con la critica all'iniziativa in questione, e va cercata a mio avviso nel tipo di società in cui ormai siamo immersi.

Il mio sospetto è che a ferire la sensibilità di molti, più che il tema fertilità o natalità, sia stato il richiamo brutale al fatto, ineluttabile, che il tempo non è un bene infinito. Il che si scontra in modo fortissimo con una società sempre più assorbita nell'eterno presente, totalmente concentrata sulla soddisfazione immediata del desiderio del momento al punto da divenire incapace di progettazione, ripiegata a fissare il proprio ombelico fino a non poter più neppure alzare la nuca.

E', la nostra, un tipo di società perfettamente adatta al complesso economico che ci governa, al di là e al di sopra di quelli che dovrebbero essere i nostri governanti. Una società in cui la maggioranza è felice di farsi pignorare il futuro per godersi nel presente l'ultimo modello di cellulare o di auto, una vacanza all'estero o un televisore da un fantastilione di pollici. L'esplosione del debito privato in tutti i paesi del primo e secondo mondo sta lì a testimoniarlo. Ci tolgono, con la precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dei servizi anche essenziali, la tassazione usuraia sulla proprietà, ogni capacità di programmare coscientemente la nostra vita, ma ci sventolano davanti al naso migliaia di giocattolini luccicanti con cui trastullarci ora, subito... tanto li possiamo pagare poi.

Siamo continuamente incoraggiati ad adottare questo comportamento, a non maturare, a non progettare, a non accettare altro se non il nostro capriccio, a vivere in un singolo momento che si dilata per anni: le nostre bandiere sono il concetto di libertà deformato attraverso la lente concava dell'egoismo, di indipendenza nella distorta accezione di presunto diritto a fare il cazzo che ci pare quando ci pare, indifferenti alle conseguenze.

In un mondo intriso di questa visione una campagna come quella promossa dal Ministero della Salute entra a gamba tesa e ferisce, perchè ci strappa dal nostro sonno di eterni ragazzini e ci riporta al reale, che è fatto di un tempo che non si ferma ad aspettarci. Quella clessidra è odiosa, offensiva, disturbante... perchè è vera.

giovedì 25 agosto 2016

Terremoto Amatrice: come aiutare


Mai come nei momenti successivi a catastrofi, come quella che ha colpito la zona tra Reatino e basse Marche, è opportuno lasciare da parte polemiche, recriminazioni e tensioni e concentrarsi solo sull'aiuto alle persone in difficoltà. La solidarietà e l'aiuto reciproco sono parte fondamentale del sentimento di Nazione: è ora che bisogna mostrare il nostro saper essere popolo.

Di seguito cercherò di indicare alcuni modi per dare una mano concreta alle popolazioni vittime del sisma:

RACCOLTE DI FONDI

Donazioni via SMS: Il numero messo a disposizione dalla Protezione Civile è il 45500. Per ogni SMS inviato verranno donati 2 euro. Aderiscono tutti i principali operatori di telefonia fissa e mobile.

Croce Rossa Italiana: Iban: IT40F0623003204000030631681; causale: "Terremoto Centro Italia". La Cri ha anche attivato il numero telefonico 06 5510, dedicato al servizio donazioni, e l'indirizzo email aiuti@cri.it.

"Un aiuto subito" di Corriere della Sera e TgLa7: E' stato aperto un conto corrente dedicato a raccogliere fondi per l'emergenza. E' possibile effettuare versamenti con bonifico bancario sul conto corrente 1000/145551 aperto appositamente presso Banca Prossima. I bonifici vanno intestati «Un aiuto subito - Terremoto Centro Italia 6.0».
L'Iban da utilizzare per le donazioni dall'Italia è il seguente: IT17 E033 5901 6001 0000 0145 551. E' stato inoltre creato un codice «grande beneficiario» che permette di semplificare l'operazione: inserendo l'importo nell'apposito campo e le cifre 9707 nel campo beneficiario tutti gli altri dati verranno compilati in automatico.
Per le donazioni dall'estero l'Iban è invece: IT17 E033 5901 6001 0000 0145 551 BIC BCITITMX.

Club Alpino Italiano:  E' stato aperto un conto corrente dedicato a raccogliere fondi per aiutare le vittime del terremoto: Conto corrente “IL CAI PER IL SISMA DELL’ITALIA CENTRALE (LAZIO, MARCHE E UMBRIA)”, Banca Popolare di Sondrio – Agenzia Milano 21 IBAN IT06 D056 9601 6200 0001 0373 X15.

DONAZIONI DI SANGUE

Naturalmente in questi giorni la richiesta di sangue per i feriti è altissima, e continuerà ad esserlo anche nel prossimo futuro. Chi volesse donare può contattare una delle quattro associazioni di volontari: Avis (numero verde 800 261 580), Croce Rossa Italiana (Tel 800 166 666), Fidas (Tel 06/68891457) e Fratres (Tel 0550139179) e programmare il proprio aiuto in base alle esigenze.
LA NECESSITA' DI SANGUE CONTINUERA' ANCHE NELLE PROSSIME SETTIMANE!
  
RACCOLTE DI CIBO, VESTITI, MEDICINALI E PRODOTTI PER L'IGIENE

Moltissime le iniziative disseminate in tutta Italia; il consiglio è di consultare i siti o le pagine facebook dei quotidiani locali per trovare il punto di raccolta a voi più vicino. Ricordo che gli alimenti devono essere NON DEPERIBILI (pasta, prodotti in scatola, latte a lunga conservazione etc) e che i vestiti devono essere PULITI E IN BUONE CONDIZIONI.  
Ecco un elenco di alcuni prodotti da consegnare (fonte: forexinfo):
  • Lenzuola singole nuove o usate (pulite);
  • Asciugamani (puliti);
  • Cuscini (puliti);
  • Carta igienica;
  • Rotoloni asciugatutto;
  • Bicchieri di plastica;
  • Piatti di plastica;
  • Tovaglioli di carta;
  • Prodotti per la pulizia personale (shampoo, bagnoschiuma,sapone, dentifricio, spazzolini e altri beni di questo tipo);
  • Salviette umidificate;
  • Pannolini (per adulti e per bambini);
  • Colori per i bambini;
  • Blocchi di carta;
  • Giochi per i bambini;
  • Acqua minerale;
  • Torce e pile;
  • Apriscatole;
  • Kit pronto soccorso;
  • Medicine da banco (tachipirina - cerotti - pomate per ferite);
  • Lettini da campo;
  • Brandine;
  • Coperte;
  • Vestiario (scarpe, tute, ecc);
  • Tenaglie;
  • Pinze.
Per il settore alimentare vengono invece raccolti tutti gli alimenti non deperibili, come ad esempio pasta, passate, biscotti, omogenizzati, alimenti in scatola e altri generi alimentari di questo tipo.


VESTITI PER NEONATI E BAMBINI

venerdì 12 agosto 2016

Breve diario di un neolinguista politicamente corretto



Sono in ritardo.

L'autisto, impaziente, ha già suonato il clacson un paio di volte: se non mi sbrigo a scendere a fine giornata si beccherà una bella lavata di capo dal suo superioro a causa mia. Afferro il tablet mentre cerco disordinatamente di infilare la giacca e mi fiondo giù dalle scale.

Capita sempre così, ogni volta che devo incontrare qualcuno di importante: continuo a ripassare e limare le domande che farò, scrivo e riscrivo i punti salienti che intendo affrontare durante l'intervista fino all'ultimo secondo, spesso anche oltre, e finisco puntualmente in ritardo. Mi dico che se non facessi in questo modo non sarei un buon giornalisto, in fondo.

L'autisto mi parla di calcio mentre imbocca la via per la tangenziale. Sembra galvanizzato perché la sua squadra ha appena acquistato un nuovo calciatoro, un attaccanto piuttosto forte, sembra. Io annuisco e ribatto con qualche frase di circostanza: non m'intendo molto di calcio e avrei ancora un paio di passaggi dell'intervista da rivedere, ma non me la sento di contraddirlo né di ignorare il suo tentativo di dialogo, soprattutto ora che dalle sue abilità di piloto dipende il buon esito del mio appuntamento.

Con una manovra azzardata, ci infiliamo nel traffico del centro superando un mezzo pesante; il camionisto alla guida non è contento ed esprime chiaramente il suo disappunto facendo le corna verso la nostra vettura. Eccolo lì, il volgare maschilismo che stiamo tentando di debellare: nonostante i nostri sforzi continua a tornare in superficie. Quanta grettezza...

Finalmente, solo una manciata di minuti dopo l'orario concordato, varchiamo la soglia del residence in cui abita il mio interlocutoro. Un guardio con una divisa tremendamente militarista si occupa di contattarlo prima di alzare la sbarra che blocca l'ingresso.

Procediamo a passo lento lungo le stradine private del residence, ovunque giardini ben curati e automobili tirate a lucido. Anche mentre passiamo un giardiniero si occupa di sforbiciare una siepe leggermente più alta delle altre, mentre il suo aiutanto recupera immediatamente i rami potati e le foglie cadute. Sorrido nel vedere in questo luogo tanta organizzazione, tanta pulizia, specchio senz'altro di una pulizia morale così distante dalla misera media del triste paeso in cui mi vergogno di abitare.

Finalmente giungo a destinazione. Il padrono di casa mi accoglie con un caloroso sorriso, e mi fa strada verso il suo studio. Ovunque, tomi sui più svariati argomenti: segno della sua grande curiosità e indiscussa cultura. Non ci si potrebbe aspettare di meno, da un linguisto della sua statura.

"Quella in cui viviamo è l'era della comunicazione," mi dice in uno dei passaggi più significativi dell'intervista, "un periodo storico in cui il linguaggio ha assunto un'importanza senza precedenti. Non possiamo più permetterci di lasciare al caso o alla tradizione l'evoluzione del linguaggio, ma dobbiamo influenzarla, guidarla, imporla se necessario. Il linguaggio oggi è uno strumento di controllo della società e questo strumento deve essere saldamente nelle mani di chi è in grado di utilizzarlo per accelerare il progresso civile".

- In che modo è possibile esercitare questa guida?

"E' meno difficile di quanto sembri all'apparenza. Sebbene negli ultimi due decenni si siano moltiplicati i canali di informazione, le fonti autorevoli da cui questi canali attingono rimangono relativamente poche. Se una fonte percepita come autorevole inizia un lavoro di igiene linguistica, eliminando dal proprio lessico parole inidonee a dirigere la società verso l'unico progresso possibile, questa parola sparirà molto più velocemente dal parlare comune di quanto sarebbe accaduto decenni fa".

- Questo passaggio non mi è chiaro: non sarebbe dovuto essere più facile controllare il linguaggio in passato, quando tutte le informazioni erano convogliate da pochi giornali e una manciata di televisioni?

"Affatto. L'esiguità delle fonti informative rendeva il processo di mutazione guidata del linguaggio lento e imprevedibile: i giornali erano letti da poche persone e solo alcune di queste registravano e adottavano il cambio linguistico suggerito, ancora meno riuscivano a trasmetterlo agli altri. Con l'avvento della televisione la situazione è migliorata leggermente, ma ancora non abbastanza. Ora le operazioni di igiene linguistica cui diamo avvio sui principali canali di informazione rimbalzano e si diffondono immediatamente su centinaia di migliaia di siti, blog, social network, forum. In pochi giorni, la quasi totalità del target di riferimento viene a conoscenza del cambio linguistico e ritrova lo stesso cambiamento decine e decine di volte, su tutti i mezzi di comunicazione cui ha accesso. Il processo di adozione del nuovo linguaggio si fa molto più semplice, quasi spontaneo".

- Non c'è un rischio di rigetto di alcuni di fronte a questo processo?

"Certo, come in tutte le cose, ma in questo caso possiamo far valere il meccanismo dello stigma: le sacche di resistenza che non si adeguano alla novità vengono dipinte come retrive, bigotte, reazionarie, potenzialmente pericolose. In questo modo velocizziamo ulteriormente l'adeguamento del target alla nuova situazione (nessuno vuole percepirsi come retrivo), ed allo stesso tempo inibiamo una parte di queste sacche di resistenza dall'esprimere pubblicamente il loro dissenso. Continueranno a reputare che il nuovo paradigma lessicale sia sbagliato, ma non avranno il coraggio di esprimere la loro contrarietà. Saranno neutralizzati".

- Potrebbe farmi un esempio pratico di igiene linguistica?

"Beh, il primo che mi viene in mente riguarda la sostituzione di un termine. Avevamo un problema con la parola 'immigrati': comunicava un senso di invasione, di inserimento forzato di un elemento estraneo all'interno di società relativamente stabili; troppe persone vi associavano spontaneamente un valore negativo. Dovevamo intervenire. Alla fine si è optato per far sparire la parola dai principali media, sostituendola con 'migranti'. Termine più leggero, associato ad immagini positive (gli stormi migrano librandosi nel cielo), dal significato meno aggressivo. Un migrante è sempre in movimento, non si fermerà nella terra di nessun altro, al massimo passerà per dirigersi chissà dove. C'è voluto un po' di tempo ma i risultati dell'operazione sono stati eccellenti: oggi chi solo si azzarda a pronunciare o scrivere la parola 'immigrati' viene immediatamente percepito come una persona chiusa, avida di ciò che ha e poco disposta a condividere, egoista, potenzialmente xenofoba". 

- Un grande successo, in effetti. Quale sarà il prossimo passo?

"Mio caro, le potenzialità sono infinite. Giocando sulle leve dell'autorevolezza e dello stigma e sfruttando a dovere la velocità di diffusione dei media più moderni possiamo finalmente plasmare in profondità il linguaggio del nostro target e, attraverso questo, il suo stesso modo di pensare. Non si tratta di idee nuove, molti prima di noi avevano già teorizzato queste pratiche. Oggi però abbiamo molti degli strumenti necessari per riuscire. Naturalmente, come è giusto che sia, solo chi ha l'onere di guidare la società sarà consapevole di questo processo. Persone come me e Lei, ad esempio".

- Personi, - lo interrompo istintivamente. - Siamo due maschi, il termine corretto è personi.

"Certamente, - il suo viso si illumina di un sorriso bonario, quasi soddisfatto del mio appunto, mentre annuisce lentamente - perdoni il lapsus. A volte gli allievi sono più recettivi dei maestri stessi. Personi come noi, naturalmente".

Soddisfatto dell'interessante chiacchierata, mi congedo e mi avvio verso la vettura. L'autisto, che mi ha pazientemente atteso, sta scorrendo al cellulare la sua bacheca di un social network. Penso a quante nuove parole stiano già filtrando nella sua mente ed a quante ne stiano uscendo, proprio ora, senza che nemmeno se ne accorga. La consapevolezza di essere, grazie al mio lavoro, parte del cambiamento, del progresso, mi rende orgoglioso.

"Dove la porto dottò?"

-Torniamo a casa. Domani devo incontrare una sindaca ed è meglio che inizi da subito a prepararmi. E poi devo raccogliere e organizzare il materiale di oggi.

"Mestiere difficile il giornalista, eh?"

- Giornalisto. La nuova forma corretta è giornalisto. Si abitui.

venerdì 29 luglio 2016

L'Europa brucia, l'Italia frana... un bel cannone ci salverà



Alla fine, dopo un primo tanto "storico" quanto fugace approdo alla Camera dei Deputati, il provvedimento presentato da Roberto Giachetti (Pd) con titolo "Disposizioni in materia di legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati" è stato subito rimandato all'autunno. Niente cannabis legale, per ora, anche se i sostenitori della proposta di legge (per lo più di area radicale) si dicono fiduciosi di raggiungere il traguardo che si sono prefissati.

Il promotore dell'intergruppo parlamentare che sostiene la proposta, Benedetto della Vedova, utilizza una tesi molto semplice per giustificare la sua posizione: dato che attualmente l'intero mercato della cannabis è in mano alla criminalità, con la legalizzazione si sottrarrebbe alle mafie una parte di questi redditi, che finirebbero nelle casse dello Stato.
Se non puoi combatterli, sostituisciti a loro, insomma.

Questa posizione, che potrebbe apparire vagamente logica, è in realtà aberrante: intanto è quanto meno discutibile sotto il profilo morale che uno Stato decida di fare profitti spacciando droga. Si dirà che per alcool e tabacchi è già così, ma nel caso di quelle sostanze si sconta una diffusione già importante che risale a secoli, millenni nel caso dell'alcool, prima della nascita degli Stati moderni. Sono retaggi di un passato in cui la concezione di società era molto diversa da quella attuale, ed in entrambe i casi si sta lentamente intraprendendo un percorso di progressivo restringimento degli ambiti e dei limiti di assunzione. Fare un percorso esattamente opposto nel caso della cannabis ha poco, se non nessun senso.

Sul fatto poi che la legalizzazione possa contrastare la criminalità ci sarebbe molto da discutere; la cannabis "di Stato" infatti sarebbe comunque soggetta a tassazione e costerebbe di più rispetto a quella di contrabbando, che finirebbe comunque per essere preferita dai consumatori. Questo punto è talmente contraddittorio che lo stesso Della Vedova ammette: «Nessuno pensa che il mercato nero scomparirà. Ed è ovvio che la piazza illegale reagirà abbassando i prezzi. Per spiazzare i criminali lo Stato di Washington è partito con una tassazione zero».
Tasse zero, mentre beni di prima necessità come pane e latte sono tassati rispettivamente al 4% ed all'8,4%. La cannabis è più necessaria del pane? E poi dove finirebbero i mirabolanti introiti per lo Stato con una tassazione azzerata?

Oltretutto in Italia abbiamo già un esempio di un settore dell'economica in cui si è cercato di sottrarre guadagni alla criminalità attraverso legalizzazione e liberalizzazione: il gioco d'azzardo. Qui la storia dei vari passaggi legislativi e relativi risultati. Piccolo spoiler: non è andata a finire bene.
Per niente.

Per finire, il principio stesso che occorre legalizzare ciò che non si riesce a debellare è un'assurdità: se i cosiddetti antiproibizionisti fossero coerenti tanto quanto pretendono dal fronte opposto, non dovrebbero avere nulla contro la legalizzazione totale delle armi - visto che non si riesce a fermarne il contrabbando -, o del lavoro nero, della pirateria o anche della corruzione. In fondo non si è riuscita a debellare nessuna di queste piaghe, che esattamente come la cannabis portano ricchissimi guadagni alla criminalità e la cui repressione costa moltissimo ai cittadini, oltre ad intasare i tribunali e le carceri.

Meglio ancora, superiamo questo vecchio concetto proibizionista di "legale" e "illegale", lasciamo che tutto sia permesso... cosa volete possa succedere di male?

martedì 5 luglio 2016

Multa Paucis 3

Fonte: Il Sole 24 Ore
Esagerato... basterebbe eliminarne uno di deficit competitivo. Il più grosso. Si chiama Euro.

martedì 28 giugno 2016

Brexit: davvero hanno vinto i vecchi contro i giovani?

 

Non perderò tempo sul risultato del referendum di giovedì: il miracolo in cui io e tanti europei speravamo è accaduto ed il Regno Unito ha assestato un duro colpo al castello unionista. Ciò non vuol dire che da venerdì la Gran Bretagna sia diventata il Bengodi, ma quantomeno si avvia a tornare in pieno possesso della propria sovranità, come la stragrande maggioranza degli stati del mondo, esclusi i 27 sfigati che hanno deciso di credere ai sogni piuttosto che alla realtà.

Ciò che vorrei sottolineare è un aspetto della propaganda unionista che si è imposto già nei primi minuti successivi al risultato: dipingere la Brexit come la vittoria di anziani e ignoranti contro giovani e colti. Pur nelle varie sfumature dovute alle linee editoriali di turno, l'idea che a votare Leave siano stati solo vecchi e analfabeti è stata e viene ancora ripetuta in modo ossessivo, e nessuno si è sentito in dovere di approfondire questa informazione che viene accettata come un dogma di fede.

E invece da approfondire ci sarebbe, e non poco:

1- Se l'ipotesi è vera
Se ciò che ci viene infilato a forza nella testa è vero, e gli over 65 britannici hanno votato in massa per uscire dalla Ue, bisognerebbe tener presente che si tratta delle stesse persone che nel 1975 votarono in grande maggioranza (67%) per stare all'interno della CEE (il nome della Ue quando ancora aveva un senso). Persone che avevano dato fiducia al progetto "europeo", non detrattori a priori. Si tratta dell'unica fascia sociale che ha avuto esperienza diretta sia del Regno Unito indipendente che di quello vincolato alla Ue, ed evidentemente ha ritenuto migliore il primo. In questo senso il voto di giovedì significa un tentativo di correggere l'errore commesso nel 75 proprio per dare un futuro ai più giovani, altro che voto egoista e scontro generazionale.
Poi ci sono gli "ignoranti". E' ragionevole pensare che si tratti di persone che svolgono lavori meno remunerativi e ricevono paghe minori: i più deboli. E per una istituzione come la Ue, che propaganda di voler portare benessere e pace sociale, avere contro le stesse persone che dice di voler proteggere è più che un fallimento: una mezza catastrofe.

2- Perchè l'ipotesi non è vera
L'ultima volta che sono andato a votare sulla mia scheda non c'era il mio nome, né ho dovuto dichiarare il mio titolo di studio agli scrutatori, e ragionevolmente sono portato a credere che anche in Gb funzioni così. Questo per dire che nel referendum sulla Brexit, come in ogni altra votazione, il voto è anonimo e segreto. Ma allora come si fa a stabilire per chi hanno votato i giovani o i laureati o le massaie? Tramite statistiche e sondaggi. Si fa un certo numero di telefonate (o questionari online) in cui si chiede età, lavoro, titolo di studio e dichiarazione di voto ad un campione limitato di persone e si proietta questo dato a livello nazionale. Piccolo problema: i sondaggi non sono la realtà e possono sbagliare, anche di grosso.

Nel caso specifico il sondaggio in cui risulta che gli anziani hanno votato Leave mentre i giovani Remain è stato effettuato dalla società YouGov, una società di ricerche di mercato privata quotata in Borsa, i cui vertici sono vicini al partito Tory di David Cameron. La stessa che a ridosso del voto dava la vittoria ai Remain per 52 a 48. Non potrebbe aver sbagliato anche su questo? Secondo i media unionisti, no.

Questo è il sondaggio pubblicato da YouGov:


In basso a sinistra, in piccolo, c'è il campione statistico utilizzato per effettuare la statistica: 1652 persone. Sulla base delle risposte di 1652 persone a un questionario online da giorni in tutta Europa si parla di vecchi inglesi che hanno azzoppato i giovani.

3- E gli astenuti?
Diamo per buono anche il sondaggio YouGov, fingiamo che l'opinione di 1652 persone sia davvero rappresentativa del voto dei britannici e che YouGov abbia azzeccato la proiezione divisa per età pur avendo sbagliato quella sul risultato finale. Rimane sempre il fatto che il sondaggio in questione prende solo in considerazione chi è andato a votare, ma non indaga sulla composizione demografica di chi non è andato a votare. Stando ai dati di Eurobarometro, il Regno Unito è tra i paesi (ex)-Ue quello con il maggior tasso di astensionismo tra i giovani. Si parla di un 38% di votanti tra i 18 ed i 30 anni contro il 56% del resto d'Europa.
Anche durante le ultime elezioni, nel 2015, l'astensionismo tra i giovani 18-24 è stato del 57% contro il 22% degli over 65 (fonte Ipsos MORI).
La stessa tendenza si è verificata anche nel referendum per la Brexit, come risulta da questo articolo sul Financial Times.

La percentuale di votanti in base a età e residenza. I giovani hanno disertato le urne molto più degli anziani, e nella "europeista" Glasgow l'astensione è stata altissima.

Prima di innescare una inutile guerra generazionale o scatenarsi in fantapetizioni per rifare il referendum, forse è il caso che i Remainers delusi si domandino come mai non sono riusciti a portare alle urne un numero sufficiente di elettori, e perché una larghissima fetta di giovani abbia preferito disertare il voto.