giovedì 22 marzo 2018

Sostenere il Made in Italy è razzismo? Il caso Tirrenia - Moby


L'ultima crociata scema degli autorazzisti nostrani è stata proclamata alcuni giorni fa contro le compagnie di navigazione Moby e Tirrenia, del gruppo Onorato Armatori.

La colpa? Una campagna pubblicitaria in cui si sottolinea che il personale delle due compagnie italiane è in larghissima parte (circa il 94%) italiano.


Il testo centrale della pubblicità incriminata recita: “navigare italiano non è uno slogan, è un impegno: significa avere 5.000 lavoratori italiani altamente qualificati, per offrirvi un servizio sempre impeccabile. Significa riconoscere il valore e la professionalità dei nostri connazionali e portare lavoro e fiducia nei nostri porti. Significa darvi solo il meglio per trasformare il vostro viaggio in una vacanza”.
Decisamente troppo per le delicate orecchie degli autorazzisti!

E infatti subito è partito il canonico j'accuse che, oltre al solito gruppetto di intellettuali che avrebbero voluto troppissimo nascere a New York o almeno a London, ma son costretti a condividere i natali con noi bifolchi indigeni del Bel paese, ha avuto un qualche seguito anche sui social.

Da par suo, parte della stampa mainstream ancora stordita dalla legnata elettorale si è subito lanciata sulla notizia, parlando con incredibile leggerezza di "sciovinismo", "messaggio xenofobo" e "discriminazione etnica".

Pare che per la causa si sia mosso addirittura l'Unar, il mitologico Ufficio Anti Discriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio, che deve evidentemente aver ormai risolto quei problemini in cui incappò qualche tempo fa.

Questa storia in realtà è molto più complessa di come viene raccontata, e la campagna pubblicitaria del gruppo Onorato è solo l'ultimo atto di un crescendo che inizia venti anni fa e intreccia leggi, concorrenza tra armatori, concorrenza al ribasso tra lavoratori, globalizzazione e sindacati.
Un riassunto esauriente, in cinque parti, è stato pubblicato la scorsa settimana sul sito Stylo24 a firma di Giancarlo Tommasone:
1a parte: Tirrenia schiera la flotta «tricolore» contro Grimaldi
2a parte: Un mare di soldi (ai sindacati) per la battaglia navale Tirrenia - Grimaldi
3a parte: Formazione e reclutamento dei marittimi, l'asse sindacati - manning
4a parte: Il mare? Ormai non bagna più la città di Torre del Greco
5a parte: Onorato predica il «navigare italiano» e poi costruisce le navi in Cina

Lasciamo per un attimo da parte la vicenda specifica, che a mio avviso si inquadra perfettamente nel contesto della guerra tra poveri innescata dalle politiche neoliberiste dominanti a partire dagli anni 90 sotto la bandiera della globalizzazione, e concentriamoci sulla reazione dei benpensanti "antirazzisti".

Il loro incontenibile sdegno naturalmente non riguarda lo sfruttamento economico dei marittimi di paesi meno sviluppati su navi di paesi sviluppati, né è infervorato dalle difficoltà dei lavoratori italiani che si sono visti sottrarre il posto di lavoro non per demerito, ma solo per l'irrompere sulla scena di lavoratori dalla paga assai inferiore. No, il delicato animo dei nostri eroi si inceppa su questo ragionamento: "Un lavoratore italiano vale quanto uno straniero, QUINDI questa pubblicità è razzista".


Ora: Supponiamo che stasera vi vada del sushi, e che dobbiate scegliere tra due ristoranti in cui non siete mai stati prima. Sapete solo che in uno i cuochi sono giapponesi, nell'altro molisani. Dove è più probabile che troviate il sushi migliore?
Finché non andrete a provare, sarete orientati verso il ristorante con i cuochi giapponesi perché il sushi è un prodotto tipico del Sol Levante, un prodotto Made in Japan, e si suppone che in un ristorante con personale giapponese sia più probabile trovarne di qualità.
Magari sbagliate, magari i cuochi molisani lo sanno preparare come neanche allo Tsukiji shijō, ma il fattore nazionalità sarà comunque determinante nella vostra decisione, perché dal ristorante con i cuochi giapponesi vi attendete non solo una cucina più esperta, ma anche un contesto (quindi un'esperienza) più fedele all'originale.

In Italia siamo afflitti da un dilagante autolesionismo per cui tendiamo a sminuire le nostre capacità ed a sottovalutare l'opinione che all'estero hanno di noi, eppure il resto del mondo dà eccome valore a ciò che è italiano, tanto che il marchio Made in Italy è stimato valere oltre 1500 miliardi di dollari ed è attualmente al settimo posto come reputazione tra tutti i marchi d'indicazione nazionale, sopra colossi quali Giappone, Stati Uniti e Francia (Fonte: Made-In-Country Index).

Dobbiamo credere che i milioni di persone nel mondo che cercano ed apprezzano il Made in Italy siano razzisti? Che la loro preferenza per i nostri prodotti, il nostro stile, il nostro modo di essere sia una discriminazione verso tutti gli altri? Dobbiamo vergognarci di aver ereditato dalle generazioni passate questo incredibile tesoro immateriale?

Cercare di capitalizzare il valore aggiunto dell'italianità fornendo alla clientela un'esperienza il più possibile legata ad essa non è razzismo, ma semplice buon senso. Né è possibile slegare il Made in Italy dal fattore umano che ne è parte integrante, soprattutto quando si parla di un settore come quello turistico in cui il saper far vivere la tipicità di una specifica esperienza è una delle chiavi del successo.

Per uno straniero in crociera nel Mediterraneo c'è differenza tra imbarcarsi su una nave italiana con personale e stile italiano, ed imbarcarsi sulla stessa nave ma con personale di ogni dove, parlante una Babele di lingue diverse ed istruito alla meno peggio a fornire un servizio "in stile italiano".

La stessa differenza che passa, ad esempio, tra gustare del Parmigiano Reggiano e del Parmesan.

Che anche gli amanti del Parmigiano, sotto sotto, siano razzisti?

lunedì 12 marzo 2018

Elezioni 2018: la buriana populista


Questo blog è poco più di un diario personale, non pretende di spiegare, tantomeno insegnare niente a nessuno, ma a volte riesce ad intuire in anticipo la direzione degli eventi nonostante voci molto più forti ed autorevoli indichino altre strade. Il caso delle elezioni del 4 marzo è uno di questi.

Come scrivevo in questo post di gennaio: "Il 2017 è stato - a torto - raccontato come l'anno della ritirata delle forze sovraniste, mentre iniziava un bombardamento mediatico volto ad instillare il frame della ripresa economica e dell'uscita dalla crisi. La realtà percepibile spostando anche di poco il velo di Maya è tutt'altra [...]".

Le mie sensazioni erano corrette ed il voto l'ha confermato: la netta maggioranza degli italiani non ha abboccato al frame della ripresa rimbalzato ossessivamente dai media, ha respinto il governo "istituzionale", se ne è sbattuta dell'esecutivo "credibile" ed ha gonfiato a dismisura le vele delle forze che più venivano dipinte come irresponsabili, dilettantesche, sgangherate, pericolose o peggio.

Il 4 marzo ha vinto il sentimento populista, continuando il cammino iniziato in tutto il cosiddetto Occidente a partire dall'Oxi greco del 2015 (vergognosamente tradito dal protorenzi Tsipras), passato per il Leave britannico, l'elezione di Donald Trump ed il No al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, con battute d'arresto solo apparenti in Olanda e Francia lo scorso anno.

Mentre veniva battuta dal gelo artico, l'Italia montava nelle urne la buriana furiosa che ha spazzato via qualunque forza politica esplicitamente vicina alle ricette dell'establishment praticate a partire dalla crisi del 2008 e pagate dai ceti medio-bassi con lacrime e sangue.

I due vincitori indiscussi del 4 marzo sono M5S e Lega. I loro elettori hanno votato con lo stesso obiettivo (archiviare il governo dei "credibili" ed esprimere il proprio forte malessere) ma le due forze - entrambe ascrivibili al fenomeno populista - sono decisamente diverse: il voto a Salvini esprime una chiara volontà sovranista, che individua le cause del declino italiano nella progressiva perdita dell'indipendenza nazionale e nell'adesione incondizionata all'ideologia globalista, il voto a Di Maio è ancora legato al frame più genericamente populista della "corruzione dilagante" innata in gran parte degli italiani e la cui vittima sarebbe una mitologica popolazione di "onesti".

La posizione sovranista è per definizione incompatibile con l'ideologia liberista globalizzata, quella grillina invece può rapidamente diventare funzionale al sistema di potere che ho definito Ancien Régime 2.0, dato che ne condivide alcune pratiche fondamentali (tagli alla spesa pubblica, stretta fiscale sui ceti produttivi, critica alla democrazia rappresentativa). Non a caso gli slogan dei 5 Stelle ricalcano quasi alla lettera quelli del Pci di fine anni 70, quando alla lotta di classe in nome del proletariato si sostituì lentamente la generica lotta contro corruzione e sprechi incarnata nella berlingueriana "questione morale" (qui un brillante articolo a riguardo).

Già subito dopo le elezioni uno specialista di allineamento al Potere (quello vero) come Scalfari ha indicato nel movimento di Di Maio il "grande partito della sinistra moderna" destinato a proseguire, assorbendolo, l'opera del Pd:


Per il Movimento 5 Stelle, abilissimo fin qui ad intercettare il malcontento più generico sia a destra che a sinistra, sembra giunto il momento di scoprire le carte: i segnali che le élite stanno inviando sono quantomeno di non ostilità verso un governo Di Maio con appoggio o astensione di parte del Pd. Dovesse nascere, un governo del genere finirebbe per il collocarsi rapidamente nello stesso solco dei precedenti. Dopo qualche concessione minore alle istanze anti-sistema dei 5 Stelle, come ad esempio qualche taglio ai costi della politica e un "Reddito di Cittadinanza" tremendamente simile al restyling del REI piddino, si punterebbe sempre di più sui punti del programma 5 Stelle compatibili con il regime liberista: revisione dei costi, tagli alla spesa, stretta sul denaro contante, sostanziale subalternità all'asse Merkel - Macron. Poco importa che il rapporto di forza sarebbe a favore dei grillini: una volta avviato un governo le minoranze che lo compongono (o che non gli sono ostili) pesano più del blocco maggioritario, avendo meno da perdere dalla caduta dello stesso.

Il panorama dei prossimi mesi è ancora difficilmente decifrabile ma al momento, vista la resilienza di cui è capace il sistema, lo scenario più probabile prevede una ennesima scissione del Pd sulla base della fedeltà a Renzi e la disponibilità della parte non-renziana, magari ricomposta con gli esuli di LeU, a far nascere un governo 5 Stelle, meglio se punteggiato da figure "tecniche" o "istituzionali" rassicuranti per i "mercati".

Consapevolmente o meno, il nuovo governo finirebbe per completare l'opera, che avevo descritto in questo post, già avviata dal Conte-premier Gentiloni: rendere irreversibile la cessione della Sovranità nazionale indebolendo il sistema-paese in modo critico. Se i precedenti esecutivi marciavano volontariamente verso l'obiettivo, questo ci verrebbe portato lentamente, di obbligo in obbligo, a cominciare dalla manovra aggiuntiva di maggio (perché la flessibilità avrà improvvisamente fine), per passare poi alle clausole di salvaguardia tra pochi mesi fino alle trattative sull'Unione bancaria.

Privo di una chiara strategia di distacco dal potere di Bruxelles / Francoforte, anche il più euroscettico dei governi dovrebbe capitolare ad ogni diktat ricevuto, pena l'inizio del "trattamento greco".

A quel punto il consenso raccolto dai 5 Stelle subirebbe un veloce "effetto Tsipras" ed all'inevitabile caduta dell'esecutivo la buriana popolare tornerebbe a soffiare ancora più forte.

Solo sulle vele sovraniste, stavolta.

giovedì 15 febbraio 2018

Verso le elezioni 2018: i "contatori del debito pubblico"

Foto: Ansa
Li avete visti spuntare all'improvviso nelle stazioni ferroviarie di Roma e Milano, oppure ne avete sentito parlare grazie all'ampia copertura mediatica ricevuta su giornali, tg e siti d'informazione: sono i giganteschi maxischermi a led, fatti installare dall'Istituto Bruno Leoni, che fino al 4 marzo ci aggiorneranno ben 855 volte al giorno sull'ammontare del debito pubblico italiano.

Una sorta di implacabile, austerissimo memento mori accompagnato da un breve testo e uno slogan dai toni giusto un filo minacciosi: "pagherai anche tu""ogni promessa è debito".

Purtroppo, da ignorante populista con l'aggravante del sovranismo qual sono, in un primo momento non ho colto la natura altruistica del monito che mi veniva rivolto ed il mio pensiero è volato solo a questo:


Poi però ho fatto forza alla mia natura gretta ed ho deciso di approfondire il tema. Questo ciò che ho trovato sul sito dell'Istituto riguardo l'iniziativa:

"Proviamo a mettere, quotidianamente, sotto gli occhi di centinaia di migliaia di persone la questione attorno a cui dovrebbe ruotare l’intero dibattito politico e di cui, invece, i partiti preferiscono dimenticarsi. Certo, alcune forze politiche menzionano di sfuggita la montagna del debito pubblico nei loro programmi, per prometterne la riduzione se non addirittura “l'abbattimento”. Ma, mentre lo fanno, propongono più spesa e più deficit. Purtroppo la matematica non è un’opinione: per ridurre il debito bisogna tagliare la spesa e portare il Paese in una condizione di pareggio di bilancio strutturale, come peraltro imporrebbe, almeno in teoria, non qualche segreto accordo fra il Bilderberg e gli gnomi di Zurigo ma la Costituzione più bella del mondo".

Isoliamo i tre concetti cardine:

1) Il debito pubblico è il primo problema nazionale, ma se ne parla poco e male;

2) L'unico modo di ridurre il debito è tagliare la spesa (senza nemmeno la grazia di addolcire con aggettivi quali "improduttiva" o "inutile"; bisogna tagliarla proprio tutta);

3) Il pareggio di bilancio ci è imposto dalla Costituzione, giammai da gruppi di potere.

Tre affermazioni, quattro sciocchezze. Non male come media. Vediamo di analizzare un po' le sciocchezze:

1) Il debito pubblico NON è il primo problema nazionale, ma in compenso se ne parla anche troppo. Per i dettagli su come e perché si è formato il debito pubblico nazionale potete iniziare ad informarvi qui, qui e qui. Se siete ancora convinti che questo sia il primo dei problemi italiani, vi consiglio di spendere i 40.000 euro circa della vostra quota (oltre ovviamente a quelli delle quote dei vostri cari) il prima possibile, non sia mai che gli addetti al recupero crediti mondiale arrivino a riprendersi il maltolto prima che ve ne siate disfatti...

2) Ridurre il debito tagliando la spesa ha uno spiacevole inconveniente: distrugge i servizi di competenza dello Stato. Se vi lamentate delle condizioni di scuole, strade, ospedali, sicurezza, verde e trasporti beh... quella è spesa pubblica. Tagliarla comporta per definizione il peggioramento immediato di ciascuno di quei servizi.
Soprattutto quando vi parlano di spesa pubblica improduttiva, stanno indicando esattamente scuole, strade, ospedali, sicurezza etc. ovvero tutto ciò che lo Stato offre come parte del patto sociale con i cittadini, anche se non ne trae sempre un profitto economico. Oltretutto in Italia, contrariamente a quello che vogliono farvi credere, la spesa pubblica è già stata ridotta all'osso. Non sono io né qualche bislacco complottista a certificarlo, ma l'Ufficio parlamentare di Bilancio nel suo ultimo report, come riportato su Il Fatto Quotidiano di ieri da Carlo di Foggia.

3) Questa è carina: è vero che il pareggio di bilancio è in Costituzione, come afferma l'Istituto Bruno Leoni, ma ci si "dimentica" di dire che vi è stato inserito solo nel 2012 e non ha nulla a che fare con il testo originario del 1948 (la cosiddetta Costituzione "più bella del mondo"), tanto da essere per molti una norma opposta allo spirito con cui i padri costituenti vollero scrivere la carta fondamentale della Repubblica.

4) L'Istituto Leoni sembra ritenere che il pareggio di bilancio sia stato inserito in Costituzione per ispirazione divina o per un temporaneo rinsavimento della stessa classe politica colpevole del terribile Debito Pubblico. Nessuna pressione esterna, nessun interessamento di gruppi di interessi specifici.
Io ricordo una storia diversa.
Ricordo che il 5 agosto 2011 la presidenza della Banca Centrale Europea inviò al premier italiano una lettera / ultimatum con una serie di richieste che avevano molto del diktat e poco del consiglio; ricordo che nello stesso periodo Deutsche bank iniziò a vendere una quantità enorme di Titoli di Stato Italiani (circa 7 miliardi di euro sugli 8 che possedeva) provocando il crollo del valore degli stessi e la conseguente impennata dello Spread. Ricordo che sempre in quel periodo un tale, che casualmente apparteneva ad una serie di comitati e gruppi di interessi di orientamento fortemente liberista, venne nominato Senatore a vita il 9 novembre e quattro giorni dopo, caduto sotto i colpi dello Spread il Governo eletto, ricevette l'incarico di formare un nuovo Governo. Tecnico.
Ricordo, infine, che fu proprio sotto questo Governo "tecnico" che venne approvato l'inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio.
Ma forse ricordo male io...

In conclusione
Tutta questa iniziativa rientra pienamente nella campagna elettorale in corso, ed è mirata ad alimentare un timore (la "montagna di debiti") ed un falso mito (lo "Stato sprecone"), per generare diffidenza nei confronti di ogni proposta politica che intenda rilanciare i consumi interni attraverso l'intervento pubblico. E' una simpatica trovata liberista che viene ripetuta identica in diverse nazioni già da alcuni decenni:


Il contatore della montagna del debito pubblico USA, da me fotografato nel 2014 a New York

Il contatore della montagna del debito pubblico britannico, anno 2010

Il contatore della montagna del debito pubblico polacco, anno 2010

Il contatore della montagna del debito pubblico canadese, anno 2011

Il contatore della montagna del debito pubblico tedesco (già, anche loro), attivo da 22 anni

Se siete veramente ostinati, e volete a tutti i costi un contatore che vi aggiorni in tempo reale su una enorme quantità di denaro pubblico sprecato, vi consiglio questo: a differenza dell'altro, indica una cifra che può essere realmente tagliata senza devastare alcuno dei servizi pubblici che utilizziamo ogni giorno.

domenica 11 febbraio 2018

Verso le elezioni 2018: la triplice strategia PD


Tra una ventina di giorni l'Italia sarà chiamata alle elezioni. L'esito di questo voto potrebbe avere un enorme impatto a livello internazionale, paragonabile nelle ricadute ad accadimenti come la Brexit o l'elezione di Trump negli Usa. Se il referendum del 4 dicembre 2016 segnò un'importante battuta d'arresto nel processo di svuotamento della sovranità nazionale, il voto del 4 marzo 2018 potrebbe segnare l'inizio del processo di smantellamento dell'organismo sovranazionale, acostituzionale, tecnocratico e ultraliberista chiamato Unione Europea.

Naturalmente il complesso di interessi economici che ha disegnato, voluto e imposto questa entità sta facendo di tutto per garantirne la sopravvivenza, ma a differenza dell'ultima tornata elettorale, stavolta c'è una possibilità concreta di avere nelle aule parlamentari una numerosa rappresentanza delle posizioni sovraniste a guidare l'opposizione o addirittura a governare il cambiamento dai banchi del Governo.

Sul fronte opposto a quello dell'interesse nazionale sono posizionate in maniera più o meno dichiarata numerose forze politiche, in primis il Partito Democratico, chiamato al difficile compito di evitare un tracollo in stile Partito Socialista francese (o spagnolo, o tedesco, o greco, o olandese) per poter formare dopo il voto una qualsiasi grosse koalition finalizzata a prolungare la vita dell'Unione e l'agonia d'Italia.

Triplice la strategia che il fu Partitone sembra voler adottare per garantirsi almeno la quota minima  (20%) necessaria ad un ruolo da comprimario nella prossima legislatura:

Pd1 - Il partito AL Governo
Questa strategia è rappresentata per eccellenza dal premier-conte Gentiloni. Il messaggio veicolato è semplice: il Pd ha permesso la ripresa economica, guidando l'Italia nella giusta direzione. Vi abbiamo portati fuori dal tunnel, la crisi è finita, bla bla bla... in un profluvio di pacche sulle spalle autocelebrative.
Bello, peccato che gli indicatori positivi - pur presenti qua e là - siano per la massima parte effetto della ripresa globale e del Quantitative Easing di Draghi, che per inerzia hanno trascinato anche noi fuori dalle secche di un palmo. Tanto è vero che la nostra "ripresa" è iniziata molto dopo quella degli altri e ci vede tuttora ultimi tra i 27 paesi Ue, diciassettesimi tra i paesi del G20 e unica Nazione del G20 a non aver ancora recuperato il livello di Pil precedente alla crisi. Bel risultato per un partito che dal 2007 (scoppio della crisi subprime) è stato SEI ANNI in maggioranza o al Governo.

Pd2 - Il partito DI Governo
L'attuale posizione di Renzi. Dopo essere stato rottamatore, premier "del fare" (qualunque cosa significasse), aspirante riscrittore della Costituzione, pasdaran europeista ed antieuropeista wannabe, Matteo da Rignano si reinventa novello Mitterrand e propone un'immagine di sé e del suo partito improntata alla pacatezza dei toni, alle buone maniere di stile più squisitamente democristiano. Il messaggio a grandi linee è: "Gli altri urlano, vogliono cambiare tutto, stravolgere le cose. Noi no. Noi siamo seri. Noi vi lasceremo al vostro piccolo mondo, governeremo senza disturbarvi, poco a poco, piano piano". I destinatari di questa strategia di comunicazione sembrano essere due: sia il famoso "voto moderato", da sempre sogno proibito di Renzi, sia i padroni del vapore che controllano la Ue. Questi temono le Nazioni sovrane sopra ogni cosa, e per anni hanno sostenuto apertamente il Pd al fine di tenere sotto controllo l'Italia, ma in caso di crollo piddino dopo il voto potrebbero trovare nuovi maggiordomi altrove, magari sponsorizzando un'operazione in stile En Marche con qualche giovane ministro uscente nel ruolo del Macron de noantri.

Pd3 - Il partito di LOTTA
I ministri Delrio e Orlando sembrano i più convinti portavoce di questa strategia, che non mira a guadagnare nuovi voti, quanto piuttosto a serrare i ranghi del proprio elettorato soffiando sulla paura del sempre utile "pericolo fascista". Questa incarnazione del Pd parla alla pancia dell'elettorato, agita fantasmi, dipinge minacce e cerca in ogni modo di trascinare ai seggi gli elettori Pd disillusi o apertamente scontenti, non in nome dei risultati di governo (come il Pd1) né per la veste moderata e istituzionale (come il Pd2), ma come atto di fede di una crociata contro il "Male".
L'obiettivo è coprire in modo facile e gratuito (i diritti del lavoro costano, lo Stato sociale anche, le dichiarazioni di antifascismo no) il fronte sinistro contro la concorrenza del Pd di riserva (LeU) e delle forze più radicali.

Se la strategia Pd1 è tutto sommato di prassi per le forze politiche di governo che si presentano alle elezioni, e quella Pd2 segnala una certa preoccupazione per i risultati del voto, è il ricorso sempre più massiccio alla strategia Pd3 che fa da cartina tornasole alla disperazione che aleggia a Via del Nazareno. Come se ormai fosse data per persa ogni possibilità futura di contare qualcosa e ci si preparasse da subito ad una durissima resa dei conti interna.

Cosa di cui l'Italia non può che essere lieta.

sabato 27 gennaio 2018

Trump a Davos: Un po' di buon senso nel cuore della sbornia globalista


L'intervento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump al Forum Economico Mondiale di Davos era atteso con un misto di curiosità e diffidenza, considerata l'esplicita ostilità che gran parte del salotto buono della globalizzazione nutre da sempre nei suoi confronti. Già nei giorni scorsi gli alfieri del globalismo radicale avevano preparato il terreno con attacchi frontali - particolarmente duri quelli della solita Angela Merkel e del primo ministro indiano Narendra Modi - contro The Donald. Il palco di Davos fino a ieri aveva ospitato solo infiniti peana sulle magnifiche sorti e progressive dell'ultraliberismo globalizzato e solenni atti d'accusa verso i "pericoli" delle "chiusure", del "protezionismo" e del "nazionalismo".

Poi sul palco è salito il 45° presidente Usa, e lo spartito è cambiato:


In un discorso breve e dai toni pacati, forte degli ottimi risultati economici del suo primo anno di mandato, Trump ha illustrato una visione del mondo antitetica a quella ossessivamente ripetuta fino a quel momento dai leader dell'Ancien Régime globalista e dai loro Viceré, inserendo semplici elementi di buon senso in un contesto che sembra aver perso completamente i contatti con il mondo reale.

Quali sono i cardini della politica di Trump? Sono riassunti nel famoso "America First", cioè nella consapevolezza che la missione di un uomo di governo è occuparsi prima di tutto delle esigenze del popolo che lo ha eletto. Non dei capricci dei mercati internazionali, non della costruzione di improbabili sogni unionisti, non di pericolosi esperimenti di ingegneria sociale, non della stantia retorica di ponti e muri, ma molto più semplicemente di proteggere e custodire il benessere del proprio popolo. Un invito, quello ad occuparsi prioritariamente del benessere dei propri cittadini, che il presidente Usa ha rivolto ad ogni leader mondiale:

"In questo consesso" ha detto Trump in un passaggio del suo discorso, "sono presenti alcuni dei cittadini più importanti di ogni parte del mondo [...]. Ciascuno di voi ha il potere di cambiare le opinioni, trasformare le vite e plasmare le sorti dei vostri paesi. Tuttavia assieme a questo potere c'è un obbligo, un dovere di lealtà al popolo, ai lavoratori ed ai consumatori che vi hanno fatto divenire ciò che siete. Perciò assumiamoci insieme l'impegno di usare il nostro potere, le nostre risorse e le nostre voci non solo per noi stessi, ma per i nostri popoli, per alleviare i loro fardelli, riaccendere la loro speranza e dare forza ai loro sogni. Per proteggere le loro famiglie, le loro comunità, le loro storie ed il loro futuro".

Proteggere, custodire, alleviare... avete idea di quanto possano suonare aliene queste parole alle orecchie di chi da anni predica sacrifici, austerità e rigore? Di chi predica un'ideologia economica basata sulla metodica compressione salariale del suo stesso popolo (due esempi a caso: uno che inizia per C ed un altro che inizia per G)?

Per anni gli Stati Uniti hanno privilegiato un'economia a trazione finanziaria, che ha recato gravi danni al tessuto industriale, aumentato significativamente il deficit commerciale ed impoverito soprattutto il ceto medio-basso. Ora Trump intende tornare ad un'economia a trazione industriale, ed a Davos ha chiaramente fatto intendere che si riserva di usare tutti gli strumenti a disposizione di uno Stato Sovrano (riforma fiscale, svalutazione della moneta, dazi doganali, incentivi al ritorno in patria di capitali e strutture industriali delocalizzate) per centrare il suo obiettivo.

L'invito agli altri paesi è di prendere esempio dalla scelta statunitense e avviare il ritorno ad economie più sane, in cui gli scambi commerciali siano "giusti" ed "equi" e l'occupazione principale dei capi di stato e governo sia migliorare le condizioni dei propri cittadini.

La stampa mainstream non nasconde di considerare Trump mentalmente instabile. Se così fosse, c'è da sperare che il suo stesso tipo di follia contagi presto anche altri leader mondiali: magari riusciremmo a liberarci dell'incubo che i "savi" globalisti hanno sognato per noi...

martedì 9 gennaio 2018

Multa Paucis 5

Raffronto Italia 2011 Italia 2016
L'Italia brutta del 2011 e quella bella del 2016. O era il contrario?
Dato che mancano ancora due mesi alle elezioni, e questa particolare cazzata "post-verità" l'ho già sentita troppe volte, ho preparato il simpatico schemino qui sopra, da sbattere sul grugno di chi "nel 2011 c'era il baratroh MA PERO' adesso c'è la ripresah!!!".

Perché va bene che ogni limite ha una pazienza, ma qui le stiamo superando tutte...

mercoledì 3 gennaio 2018

TG1 e Brexit. Storia di un "rapporto complicato".


Di solito non mi capita mai di guardare il Tg1, preferendo prodotti "per palati più forti" come il Tg3 o il TgLa7. Oggi però mi è capitato di fare un'eccezione ed è così che ho scoperto questa perla a proposito degli effetti della Brexit sul turismo in Gran Bretagna.

Di seguito troverete il link all'edizione delle 13.30, la "perla" arriva a partire dal minuto 00:19:00

TG1 - TG1 ore 13:30 del 03/01/2018

"Meno visitatori italiani, francesi e tedeschi nel Regno Unito, dicono i dati ufficiali; forse sono le incertezze Brexit a pesare". Dopo un'introduzione del genere, con un titolo come quello che vedete a caratteri cubitali alle spalle del conduttore, una persona normale si attenderebbe un servizio su come la Brexit abbia danneggiato il turismo in Gb... e invece a sorpresa il giornalista continua a spiegare: "...Ma Londra registra comunque un nuovo record grazie a cinesi e americani"

Aspetta.

"Meno visitatori... incertezze Brexit" mi dici, e poi Londra registra un nuovo record? Al Tg1 siete in piena crisi da dissonanza cognitiva? Decido di prestare maggiore attenzione al resto del servizio, incuriosito da un incipit tanto ossimorico.

Come l'introduzione, anche il servizio dell'inviato da Londra inizia con parole chiare e nette: "L'effetto Brexit colpisce anche il turismo, per il secondo anno consecutivo diminuisce il numero di cittadini Ue che scelgono la Gran Bretagna".

Ok, quindi l'effetto Brexit è negativo e il turismo in Gb scende. Andiamo avanti:

"Dal referendum del 2016 c'è stato un calo del 4% negli arrivi da Francia, Germania e Italia...". Chiaro, calo di visite, la Brexit ha colpito, sciocchi inglesi, li avevamo avvisati.

Segue una breve supercazzola su un presunto effetto psicologico per cui i viaggiatori europei (prima si parlava solo di francesi, tedeschi ed italiani, ora sono tutti gli europei) sarebbero diffidenti ad andare in Gb dopo il referendum. Qualcosa tipo la ripicca della fidanzatina offesa, immagino. Andiamo avanti.

"...Compensa l'aumento dei visitatori da Cina e Stati Uniti grazie ai vantaggi della sterlina debole...". Compensa? Quindi l'effetto Brexit non è più negativo? La sterlina debole (svalutazioneh!1!!1! orroreh!!!!11) porta vantaggi?

"...Tanto che il dato complessivo [...] segna un incremento dei flussi [...] circa il 7% in più rispetto all'anno precedente, e un nuovo record..."

COSA??? Ma se le presenze complessive aumentano, e si fa il nuovo record, l'effetto Brexit dove sta? Nel record?

Non posso credere che il Tg dell'ora di punta della rete pubblica ammiraglia tiri fuori una roba del genere, devo andare a controllare le fonti. Sul Times la notizia è stata pubblicata ieri ed è molto simile al servizio passato dal Tg1. Peccato, l'inviato avrebbe potuto anche elaborare un po' del suo davanti ad una notizia tanto ambigua, ma tant'è.

Passo oltre e vado sul sito di Visit Britain, che ha pubblicato lo studio ripreso dal Times prima, e dal Tg1 poi. Non trovo esattamente lo studio citato, ma mi imbatto nella pagina delle previsioni per il 2018, che contiene anche una analisi del 2017. Ecco il link

Ed ecco il grafico dell'andamento del turismo in Gb dal 2012 ad oggi:


Un trendo quinquennale di aumento dei turisti che procede senza alcuna variazione prima e dopo il referendum diventa "effetto Brexit" e "incertezze Brexit" che pesano.

Vabbè.

Poi ci si stupisce che uno inizi a preferire un altro genere di giornalisti...


2018

Il 2017 si è chiuso da pochissimi giorni, e con esso una delle peggiori legislature della storia repubblicana.

La XVII legislatura, nata monca dopo la non vittoria del Pd alle elezioni del 2013, ha visto comunque insediarsi tre governi (Letta, Renzi, Gentiloni) e due Presidenti della Repubblica, grazie anche al tasso record di cambi di casacca tra i parlamentari.

In perfetta continuità con l'esecutivo "tecnico" che aveva chiuso la legislatura precedente, ed in ossequio al volere dell'Ancien Régime 2.0, si è portata avanti la precarizzazione del mondo del lavoro con il Jobs Act, avviata la privatizzazione della previdenza pubblica con l'introduzione di un provvedimento volutamente contorto quale l'Ape, la distruzione della Scuola tramite sperimentazioni bislacche e la sua mutazione in distributore di manodopera a costo zero tramite l'alternanza scuola-lavoro.

Estranei al concetto stesso di interesse nazionale, i governi degli ultimi cinque anni hanno eseguito con spirito pronto e obbediente ogni ordine giunto da Bruxelles o dagli altri centri di potere economico finanziario, spesso mostrandosi più realisti del re nell'eseguire quanto richiesto.

Una legislatura perennemente in bilico tra tragedia e farsa, come l'ultimo provvedimento entrato in vigore (ovviamente a ricezione di una norma "europea"), che obbliga tutti noi a pagare persino i sacchetti della frutta al supermercato.

Pur in clamorosa assenza di un chiaro mandato elettorale, queste maggioranze sgangherate hanno addirittura tentato di stravolgere la Costituzione ed il funzionamento delle istituzioni con una sciagurata riforma, fortunatamente cassata dal volere popolare con il referendum del 4 dicembre 2016.

La forte reazione dell'opinione pubblica è stata decisiva anche per scongiurare un altro scempio, quello Ius Soli che avrebbe contribuito in brevissimo tempo a frantumare ancora di più la coesione delle categorie sociali avvitandole in lotte intestine etnico-religiose e lasciando le élite libere di proseguire indisturbate nella demolizione dello Stato Sociale e nell'esproprio della residua ricchezza privata ancora nelle disponibilità della classe media.

Tra sessantuno giorni esatti il voto popolare chiuderà definitivamente questa storia e ne aprirà una nuova, che potrebbe riprendere dove questa è finita, o assestare quella scossa benefica al paese ed al continente e segnare l'inizio del risveglio della Nazione dopo un sonno durato troppo a lungo.

La linea di faglia che deciderà l'uno o l'altro esito è sempre la stessa da ormai più di un decennio: la volontà di affrontare la questione Unione Europea ad iniziare dal suo strumento più coercitivo: la moneta unica.

Qualsiasi altra proposta, qualsiasi altro programma che prescinda dall'affrontare la questione dell'euro ed i danni che questo sistema sbagliato arreca all'Italia è semplice fuffa, e si rivelerà come tale quando l'ennesimo "Ce lo chiede l'Europa" ci costringerà a dirottare ancora una volta le risorse della nostra economia nel demenziale tentativo di soddisfare obiettivi irraggiungibili.

D'altronde a Bruxelles hanno già anticipato da mesi che il prossimo esecutivo, qualunque sia, sarà chiamato a varare entro breve una manovra aggiuntiva necessaria a "riallinearsi ai target europei". Tanta è la considerazione che si ha per i concetti di democrazia e autodeterminazione da quelle parti.

Il 2017 è stato - a torto - raccontato come l'anno della ritirata delle forze sovraniste, mentre iniziava un bombardamento mediatico volto ad instillare il frame della ripresa economica e dell'uscita dalla crisi. La realtà percepibile spostando anche di poco il velo di Maya è tutt'altra, e parla di una nazione ferma da un decennio, impegnata in inutili sforzi di rigore che anziché produrre risultati positivi distruggono la domanda interna e aggravano la crisi. Una terra che fu in grado di scalare le classifiche dei paesi più industrializzati fino a competere con nazioni molto più grandi e potenti, e che dal 2000 (entrata in vigore della moneta unica) ha visto sparire un quinto della propria capacità industriale. Un paese che non solo ha smesso di fare figli - sabotando il suo stesso futuro - ma che tramite tassi di disoccupazione mantenuti artificiosamente a livelli altissimi spinge i giovani ad andarsene in cerca di fortuna, riaprendo una pagina dolorosa della sua storia che si sperava chiusa per sempre da almeno un secolo.

La strada che imboccammo decenni fa, accettando di vincolarci alle esigenze di altre economie del continente, è chiaramente sbagliata e disastrosa. Il voto del 4 marzo potrebbe essere l'ultima occasione per recuperare la nostra indipendenza avendo ancora a disposizione i mezzi per tornare a competere e vincere.

Non possiamo perderla.