mercoledì 30 dicembre 2015

Di Europa, morbi ed anticorpi

A poche ore dalla fine di questo 2015, 13° anno dall'introduzione nelle nostre tasche della moneta-vincolo chiamata euro, vale la pena fare alcune osservazioni sulla situazione in cui ci troviamo come italiani ed europei e sul prossimo futuro:

- L'Europa è ancora malata, e gravemente. Il morbo che l'affligge però non è la "crisi" (quello semmai è un sintomo), ma piuttosto una dottrina detta ordoliberismo, propagata da una ristretta, potente oligarchia che per molti aspetti ricorda l'Ancien Régime abbattuto durante la Rivoluzione Francese.

- Come già l'Ancien Régime, anche la nuova oligarchia si percepisce come altra rispetto al resto della popolazione, cui non riconosce alcun diritto né funzione, se non quella di servirlo. Un tempo con il lavoro nei campi, oggi con la trasformazione da "cittadini" a "consumatori-merci".

- Come già gli esponenti dell'Ancien Régime, anche quelli della nuova oligarchia si considerano essenzialmente estranei ad ogni appartenenza nazionale ed hanno anzi in odio ogni legge o pratica che ne limiti il campo d'azione entro confini precisi. Anche quando ostentano una qualche forma di patriottismo, il loro è solo un atteggiamento di maniera dovuto alla volontà di compiacere parte dell'opinione pubblica di riferimento. Ai tempi un Borbone si percepiva prima come tale e solo in seconda battuta come spagnolo, francese o italiano. Allo stesso modo ora gli euroligarchi si riconoscono più affini agli altri della propria casta che ai propri connazionali.

- Prima della Rivoluzione Francese gli Stati erano considerati poco più che proprietà del sovrano e della sua aristocrazia. Anche ora nell'ottica degli oligarchi gli Stati sono un terreno di caccia da cui trarre il maggior profitto. Ogni norma o disposizione che tuteli le popolazioni dall'aggressione contro i suoi beni o diritti è percepita come arcaica e deleteria. Gli oligarchi malsopportano le Costituzioni, i meccanismi di garanzia e le altre norme maturate nel corso delle lotte del XIX e XX secolo e premono per limitarne in ogni modo l'influenza a vantaggio di istituzioni private riconducibili alla loro influenza.

- Ai tempi dell'Ancien Régime, il ruolo della stampa fu fondamentale per diffondere in ampi strati della società - soprattutto nella borghesia, da sempre motore dei cambiamenti sociali - una nuova coscienza e con questa nuove rivendicazioni. L'aristocrazia di allora reagì con la censura ed il carcere, quella di oggi con strumenti quali lo spin ed il frame,  il controllo delle fonti più autorevoli ed il sistematico discredito delle voci fuori dal coro.

- Per finire, allora come ora il primo nemico da abbattere per assicurarsi il controllo duraturo sulla società è la piccola e media borghesia. Obiettivo che i nuovi oligarchi perseguono efficacemente tramite il velenoso incrocio di moneta unica e scardinamento delle economie tradizionali a colpi di apertura dei mercati. La progressiva scomparsa del cosiddetto ceto medio va esattamente in questa direzione.

Precarizzazione del lavoro, immigrazione biblica, erosione costante dello stato sociale, trasformazione della scuola da istituto deputato a formare individui a mero strumento di avviamento al lavoro, sostegno a tutte quelle agende che mirano all'annacquamento delle identità dei popoli e dello stesso concetto di nazione: sono tutte pratiche funzionali al disegno autoritario di questo nuovo regime, che finora ha agito pressoché indisturbato sapendo pilotare astutamente l'umore delle opinioni pubbliche.

Nessuna speranza, dunque? Non esattamente.

Mano a mano che si manifesta la vera natura liberticida dell'oligarchia che ha preso possesso dell'Europa, e si fanno più evidenti i danni per i cittadini, si manifestano in tutte le nazioni fenomeni di reazione, con forme e modi che variano in base alla storia ed alla cultura di ciascuna, come giusto che sia. Ovunque nascono e crescono movimenti cosiddetti populisti, che esprimono (a volte sinceramente, altre come meri false flag) il disagio crescente e la voglia di rivalsa di settori sempre più vasti di popolazione. 

Ciò costringe l'oligarchia a scoprire parte del suo bluff, ad esempio facendo saltare sempre più spesso il tradizionale gioco delle parti parlamentare tra destre e sinistre: in Italia un governo di sinistra è retto da una formazione che si dichiara di centrodestra, in Germania la Merkel governa assieme al centrosinistra, in Francia si è assistito al ritiro dei candidati socialisti per favorire il centrodestra di Sarkozy in funzione anti-FN, in Spagna nonostante i tentennamenti si arriverà probabilmente all'ennesima grande coalizione.

Questa soluzione d'emergenza per mettere "al riparo dal processo elettorale" il programma ordoliberista non può essere usata ad libitum: l'effetto incrociato del persistente malessere sociale e della crescente astensione provocata da troppe Grosse Koalitionen non può che finire per favorire, prima o poi, uno dei movimenti populisti.

In questo senso va letta la recente campagna ferocemente anti Front National condotta in Francia, giunta fino alle minacce di guerra civile in caso di vittoria del partito di Marine Le Pen: la vittoria di un movimento autenticamente contrario alle politiche ordoliberiste in un qualsiasi grande paese europeo sarebbe una minaccia mortale per l'intero progetto Ue.

Proprio il caso francese porta a sperare: gli anticorpi alla distruzione dall'interno dell'Europa esistono, seppur ancora fragili e confusi, e possono ancora minacciare seriamente l'oligarchia al potere. I prossimi anni probabilmente saranno segnati da una corsa contro il tempo: da un lato manovre dall'alto per svuotare sempre più di contenuto Costituzioni e funzioni democratiche, dall'altro la crescita dei movimenti che rivendicano sovranità e democrazia.

In passato l'Europa ha saputo trovare da sé, più volte, la forza di ribellarsi alle ingiustizie ed all'oppressione. E' d'obbligo sperare sappia farlo anche in questo caso.

venerdì 18 settembre 2015

Una storia di Università, pesi e misure




La notizia è di quelle destinate a suscitare scalpore: il rettore dell'Università Giuseppe Garibaldi di Torino ha deciso di permettere l'iscrizione gratuita ai corsi di Laurea del suo Ateneo. Uniche condizioni: essere nati in Italia e provenire da famiglie a basso reddito.

"Da tempo ormai le statistiche indicano l'Italia come uno tra i paesi con il minor numero di laureati d'Europa, - afferma il rettore G. Falsetti - e ciò non può che avere ripercussioni negative sia nel presente che, soprattutto, nel futuro del nostro paese. Questa iniziativa serve proprio a dare un sostegno concreto a giovani e famiglie in difficoltà, permettendo loro un migliore accesso nel mondo del lavoro e un futuro migliore".

"E' fantastico, - ci dice Francesco M., ventunenne originario della Sicilia - finalmente ho l'opportunità di finire gli studi in Medicina: avevo dovuto abbandonarli dopo che mio padre è stato licenziato". Anche Marina C., torinese Doc di 18 anni, sgrana gli occhi blu e sorride: "I miei genitori sono esodati, e senza questa iniziativa non avrei mai potuto pagare le tasse universitarie, nemmeno lavorando. Ora invece posso studiare e presto diventerò un ingegnere".

"E gli altri? - chiediamo - Gli stranieri che volessero laurearsi per trovare anche loro un futuro migliore? L'esclusione da questa iniziativa non li danneggia?"

"Tutto ciò che vogliamo è dare una mano a giovani impegnati a migliorare le proprie condizioni di vita. Nessuna discriminazione verso gli stranieri: per loro sono previste agevolazioni specifiche. Se proprio vogliono, possono iscriversi senza spendere grandi cifre".

Nonostante le parole rassicuranti del rettore Falsetti, non riusciamo a ignorare una sonora nota stonata in questa iniziativa, il sapore amaro che si prova quando qualcuno ottiene privilegi che ad altri vengono negati. E' quel sapore di arbitraria disparità di trattamento che troppo spesso in passato abbiamo visto gonfiarsi fino a diventare esplicito e pericoloso razzismo.

Quella descritta nell'articolo qui sopra è una vecchia storia: qualcuno decide di offrire un trattamento privilegiato nei confronti di qualcun altro, creando di fatto una discriminazione tra chi ottiene il privilegio (nell'esempio dell'articolo i giovani italiani) e chi non lo ottiene (gli stranieri). Spesso situazioni di questo tipo ci vengono presentate come chiari esempi di comportamento razzista. Diamo per buona questa interpretazione dei fatti: Il rettore Falsetti nella sua università discrimina tra italiani (corsi gratis) e stranieri (corsi a pagamento).

Peccato che il rettore Falsetti non esista, così come non esiste Francesco M, né Marina C, e neppure l'Università Giuseppe Garibaldi di Torino.

Invece esiste questo. Corsi e laurea gratis per immigrati.
Per quanto mi sforzi di capire il punto di vista di chi ha promosso l'iniziativa in questione, non riesco a non pensare al crollo di iscrizioni nelle università meridionali, al triste record di abbandoni scolastici che Napoli detiene da anni, a quel 60% di giovani partenopei disoccupati, e mi chiedo se chi ha avuto questa pensata non viva in realtà in qualche cantone svizzero e interagisca con Napoli solo in teleconferenza, o non sia per caso cieco e sordo per non essersi accorto dei giganteschi problemi che stanno lì, sull'uscio di casa sua.

Le risorse necessarie ad organizzare i corsi gratuiti non esistevano prima di quest'anno? Se esistevano, non potevano essere messe a disposizione dei giovani napoletani? E se esistono solo da quest'anno, non potevano essere equamente distribuite tra migranti e residenti, visto che una buona parte di questi ultimi vive in una condizione economica e sociale drammatica?
Perché un corso di laurea gratuito per soli italiani è discriminatorio e uno per soli immigrati no?

Io non riesco a trovare risposte sensate, penso solo a quando, tra 5 o 6 anni, Irfan e Ousaine saranno laureati ed avranno un lavoro - magari lontano dall'Italia - grazie agli studi fatti a Napoli, mentre i loro coetanei nati e cresciuti in quella città non avranno mai avuto neppure l'occasione di iniziare a costruire il proprio futuro.

sabato 12 settembre 2015

Lo sciacallo non indossa scarpe

"Con il termine sciacallo si identificano diverse specie di mammiferi appartenenti al genere dei Canis, e le relative sottospecie. Tutte le specie di sciacallo sono contraddistinte da una taglia contenuta, minore di quella dei lupi. Possiedono una dentatura robusta, con lunghi canini e zampe lunghe e affusolate.
Gli sciacalli occupano una particolare nicchia ecologica, in quanto sono predatori di piccoli animali e, soprattutto, mangiatori di carogne. Sono animali notturni, attivi prevalentemente all'alba e al tramonto". 
(Fonte: Wikipedia)

Una sola precisazione: non ho assolutamente nulla contro i cittadini che nel recentissimo passato hanno deciso di partecipare ad una certa iniziativa a Venezia e in altre città italiane. Magari alcuni di loro, magari molti, qualche anno fa si sono mobilitati anche per protestare contro l'aggressione ad alcuni stati sovrani dell'altra sponda del Mediterraneo, causa prima della tragedia occorsa a tanti abitanti di quelle terre. Magari alcuni di loro sanno che chi è costretto a fuggire dalla propria casa per un qualsiasi evento catastrofico, di solito cerca di tornare appena possibile, e più di tutto apprezza gli interventi che cercano di riportare alla normalità la sua terra.
In ogni caso, sono certo che la stragrande maggioranza dei partecipanti all'iniziativa in questione sia stato animato dai migliori propositi e dal più nobile istinto filantropico.
In fondo, il problema non sono mai i pupi, ma i pupari.

venerdì 4 settembre 2015

L'Archeologo e l'ipocrita


Khaled al-Asaad era un archeologo. Ma prima ancora era un uomo che aveva dedicato l'intera vita allo studio ed alla valorizzazione della propria terra natale, la città di Palmira in Siria, curandone con passione le straordinarie bellezze archeologiche. In cinque decadi di lavoro aveva effettuato numerosi ritrovamenti di grande importanza, contribuendo in modo significativo alla popolarità internazionale dell'area ed alla sua promozione a Patrimonio dell'Umanità in seno all'UNESCO.

Aveva quasi 83 anni il dott. al-Asaad, ma continuava nel suo lavoro nonostante l'età, nonostante una guerra da cui non era fuggito sebbene la sua posizione di archeologo e iscritto al partito Ba'ath (il partito del presidente Assad) lo rendesse inviso sia ai ribelli antigovernativi sia ai tagliagole dell'ISIS. Già una volta, catturata la città, gli uomini del califfato l'avevano "arrestato". La seconda gli è stata fatale.

Khaled al-Asaad è stato torturato, decapitato ed il suo cadavere è stato esposto al pubblico, appeso per i piedi ad un semaforo, con un cartello che lo accusava di parteggiare per il governo di Assad, oltre che di "idolatria" e "apostasia". Nei giorni successivi, l'ISIS ha iniziato l'opera di distruzione di alcuni degli antichi templi di Palmira, radendo al suolo quello di Baal Shamin e, dopo un tentativo fallito, quello di Bel.

Il tempio di Bel (risalente al 32 d.C.) prima e dopo il passaggio dei tagliagole

La notizia dell'assassinio del dott. al-Asaad e della demolizione delle opere che per tutta la vita aveva difeso è stata diffusa nel cosiddetto "Occidente" seguendo l'andamento tipico di questa epoca di saturazione da informazioni: una prima fase di grande evidenza su tutti i media, cui è seguito immediatamente uno sdegno tanto generalizzato quanto formale, che si è tradotto in una serie di "iniziative di protesta" completamente sterili (in Italia la palla al balzo è stata colta dal presidente dell'Anci Fassino che ha proposto - nientemeno - l'esposizione di bandiere a lutto nei musei e nelle sedi culturali) per poi dimenticare rapidamente il tutto, già pronti ad indignarsi per una notizia più fresca.

La vita del dott. al-Asaad, quella dell'altro archeologo ucciso il 12 di agosto, il 37enne Qassim Abdullah Yehya, quella di tutti i siriani morti in patria dall'inizio della criminale guerra civile in gran parte fomentata e finanziata dallo stesso Occidente, non possono essere liquidate allo stesso modo in cui si commemora la morte del massaggiatore di una qualsiasi squadra di calcio.

Non riesco ad immaginare niente di più ipocrita e vile.
Anzi si.

Di più ipocrita e vile c'è questo lembo di mondo impazzito chiamato Occidente, che continua senza sosta a raccontare solo ed esclusivamente il dramma di chi fugge, fottendosene della sorte di chi dalla guerra, dalla sua terra, non vuole o non può andarsene. In questi giorni ovunque ci si giri si è investiti da un fiume di appelli all'accoglienza, allo spirito umanitario nei confronti dei "migranti", di chi affronta il "dramma del mare" per cercare il benessere. Ma l'accoglienza durante una crisi è solo metà del lavoro che dovrebbe compiere una società che si dice civile: l'altra metà è tentare di risolvere la crisi che genera l'esodo. 
Ed in questo senso non è stato compiuto neppure il più piccolo dei passi.

Mentre l'Europa si commuove, si indigna, piange e manifesta sui social network infinito dolore per la sorte della minoranza che ha deciso di abbandonare la propria terra natale in cerca di fortuna, la maggioranza che ancora vive quotidianamente tra bombe, attentati, sgozzamenti, stupri ed ogni altro genere di violenza è inghiottita nel cupo pozzo del disinteresse. Pur disponendo di risorse di ogni tipo per imporre la pace (o almeno ridurre l'intensità delle violenze) se non altro negli scenari più caldi, l'Occidente e l'Europa in particolare si preoccupano solo di quanto aprire le porte a chi scappa, generando inevitabili tensioni al proprio interno che si faranno sempre più tragiche quanto più forte sarà la pressione sui popoli "ospitanti".

A chi importa di chi ancora lotta perchè la sua casa, il suo quartiere, la sua chiesa o moschea non vengano spazzate via da un colpo di mortaio o da un'autobomba? Di chi è troppo anziano o malato per compiere il famoso "viaggio della speranza"? O di chi come Khaled al-Asaad sacrifica tutto per proteggere beni che sono suoi perchè parte della sua identità ma che ha custodito ed offerto a beneficio di tutta l'umanità?  

Eppure aiutando e proteggendo chi ha scelto di rimanere si potrebbe ridare pace e dignità ai popoli precipitati nel caos, e questo oltre a rallentare significativamente le emigrazioni sarebbe un gesto di altruismo mille volte più efficace della sola accoglienza.

Peccato che tutti gli indizi vadano in un'altra direzione: il caos in Africa e Medio Oriente non verrà fermato perché è stato creato ad arte sovvertendo i governi più stabili e laici di quelle regioni; il terrorismo non sarà realmente combattuto perchè è un ottimo babau per addomesticare le opinioni pubbliche occidentali; la tratta dei nuovi schiavi tra le sponde del Mediterraneo continuerà con il suo carico di morti da sbattere in prima pagina perché non si può fermare un business tanto grande e redditizio.

Non potendo chiedere altro, non resta che pregare che almeno ci venga risparmiata l'ignobile, ipocrita pantomima dei minuti di silenzio e delle bandiere a mezz'asta. Il dott. Khaled al-Asaad e le altre vittime della strage in atto alle porte d'Europa meritano almeno questo.

venerdì 21 agosto 2015

Di caporalato, riforma del lavoro e altri piccoli orrori

Fantastico come in questo periodo di turbolente trasformazioni sociali capiti spesso di imbattersi in macroscopici controsensi sbattuti in faccia all'opinione pubblica come se niente fosse. Quasi si trattasse di verifiche sul grado di assuefazione dei cittadini ad una "informazione" da consumare sempre più velocemente, sopprimendo le capacità di ragionamento e collegamento tra i fatti e puntando tutto su rapide risposte emotive, per lo più di indignazione, da spostare di volta in volta sul tema ritenuto più utile.

Ad esempio aprendo la home page de La Repubblica di ieri ci si trovava davanti a questo:


Guardate con attenzione questa schermata; al netto della fuffa da giornale di fine agosto le notizie principali sono tre:

- Le dichiarazioni del ministro dell'agricoltura Martina sul caporalato;
- Le parole del Papa e quelle del Vescovo di Melfi sul lavoro;
- Un commento di Marco Lodoli sulle implicazioni della riforma della scuola per gli insegnanti.

Tre notizie sul lavoro, tre notizie che manifestano una contraddizione mastodontica.

Da un lato abbiamo le dichiarazioni di un esponente del governo che si impegna a contrastare forme di lavoro inique e illegali, dall'altro abbiamo non uno, ma ben tre esempi delle conseguenze nefaste della filosofia del lavoro sostenuta dallo stesso governo!

Non è un mistero che con il Jobs Act questo governo, in linea con i due che l'hanno preceduto e con quanto sta accadendo un po' ovunque nella Ue, stia smantellando sistematicamente gran parte dei diritti conquistati dai lavoratori in decenni di lotte, facendo prevalere sempre e comunque le necessità della produzione rispetto a quelle dei lavoratori nel tragico tentativo di abbassare il costo dei prodotti comprimendo all'estremo la quota salari. Così con un colpo di penna il lavoro a tempo indeterminato è stato sostituito dal lavoro "a tutele crescenti", il che vuol dire precariato a vita per la stragrande maggioranza dei nuovi assunti e meno contributi da versare per gli imprenditori. Inoltre si sta lavorando per demolire l'istituto della contrattazione collettiva ripristinando i contratti aziendali in un bel revival del 19° secolo.

E non mancano inquietanti iniziative-spot da parte del mondo industriale, come quella di far lavorare i dipendenti di domenica o di ferragosto (magari in fabbriche i cui amministratori fino a poche settimane prima si stracciavano le vesti gridando all'imminente chiusura). Insomma tutto pur di far tornare indietro le lancette della storia ad un'epoca in cui il potere contrattuale dei dipendenti era pressoché nullo, così come le loro tutele.

Come può un governo attivamente impegnato a cancellare le principali conquiste ottenute dai lavoratori, ciecamente convinto che l'unica chiave per la crescita sia seguire il "modello tedesco" di compressione dei consumi interni e aggressione dei mercati esteri, combattere seriamente un fenomeno odioso come quello del caporalato?

Semplicemente, non può. Perchè il caporalato fa parte integrante del modello di società verso cui ci stiamo dirigendo.

Con buona pace del Papa e del vescovo di Melfi, quando si insegue con tanta tenacia il mito della produttività a discapito dei lavoratori, quando ci si accanisce con balzelli di ogni tipo sul piccolo risparmio delle famiglie, quando si incoraggia lo stanziamento in massa di potenziale manodopera disposta a lavorare per una frazione del compenso richiesto dalla manodopera residente, quando non si riesce a comprendere la differenza tra volontariato e sfruttamento, non si ha più diritto a stupirsi né tantomeno ad indignarsi se qualche criminale decide di portare alle estreme conseguenze il modello di lavoro promosso nella società riportando alla luce un fenomeno che sembrava sepolto decenni fa.

mercoledì 5 agosto 2015

La questione greca vista dai tedeschi. Quegli altri.

Condivido di seguito la puntata del 31 marzo scorso del programma satirico tedesco "Die Anstalt", dedicata alla questione greca:


Nonostante un grave errore nell'individuare la causa dei problemi denunciati (il messaggio della trasmissione è di forte critica all'austerità, ma dimentica completamente l'€uro che ne è il padre), vale la pena comunque guardare il video per ricordare che quando parliamo di Germania, Grecia o Olanda non dobbiamo mai cadere nella trappola di prendercela con il popolo tedesco, greco o olandese.

Il gioco di fomentare rancori contrapposti tra nord Europa "virtuoso" e sud Europa "vizioso", la facile semplificazione in tedeschi avidi e greci spendaccioni, fa esattamente il gioco delle élite €uriste e fornisce alle rispettive opinioni pubbliche un comodo falso bersaglio contro cui scagliarsi. E' vero, in Germania ci sono migliaia di persone convinte di stare facendo beneficenza ai greci con il loro denaro, ma ce ne sono molte altre che sanno che le cose non stanno esattamente così. Allo stesso modo in Grecia alcuni ormai vedono un pericoloso nazista in qualsiasi turista tedesco, ma molti altri sono a conoscenza dei danni subiti dal popolo tedesco per mano dei suoi stessi governanti tramite le tanto decantate riforme.

Mentre ciarlano continuamente di unione nata per la pace e di fratellanza continentale, l'Ancien Régime che guida le sorti della Ue e il suo codazzo di agit-prop fanno di tutto per aizzare un popolo contro l'altro, poi puntano il ditino scandalizzati e dicono: "Vedete? il problema sono i nazionalismi! Ci vuole più Europa per finirla con queste liti!". Ma la loro concezione di più Europa, l'abbiamo imparato in Grecia, significa meno libertà per i popoli europei di decidere il proprio destino, un intero continente soggetto a leggi e regolamenti tagliati su misura dei grandi interessi privati e sottratto alla sovranità popolare tramite lo svuotamento sistematico delle istituzioni democratiche e delle garanzie costituzionali, l'estinzione programmata della classe piccolo-medio borghese che è storicamente motore di ogni grande sommovimento sociale.


La battaglia contro l'incubo unionista non può e non deve essere condotta sul piano orizzontale, tra le nazioni europee, ma sul piano verticale, per le nazioni europee. Solo il mutuo riconoscimento all'indipendenza ed alla specificità tra i popoli d'Europa potrà contrastare efficacemente un regime tecnocratico, apolide e attivamente impegnato nella distruzione delle identità storiche e culturali dei popoli che governa come quello dell'unione.

mercoledì 29 luglio 2015

Le mani sulla Sanità



I mesi estivi sono i più amati da una certa politica.

Sono i mesi in cui i cittadini sono più distratti, tra ferie in arrivo e caldo che suggerisce di dedicarsi ad attività leggere, disimpegnate. D'estate è possibile preparare qualsiasi tipo di scempio legislativo e farlo passare sotto il naso dei cittadini in modo quasi indolore. 
L'estate è la vasellina della politica.

Quest'anno, per non venire meno ad una tradizione decennale, si è pensato in grande, prendendo di mira una delle colonne dell'Italia pre-dominio eurista: la Sanità Pubblica. Una bella sforbiciata al bilancio da 10 miliardi di euro (più di 19mila miliardi di lire, per i non €uristi), tanto per gradire. Siccome le parole sono importanti non si parla esplicitamente di tagli, ma di "riorganizzazione del sistema in termini di efficienza, controlli e verifiche". Peccato che di buone intenzioni sia lastricata la strada dell'inferno, e le minori somme a disposizione dei dirigenti regionali si tradurranno quasi per intero in minori servizi e maggiori disagi, incidendo in modo trascurabile sull'efficienza.

Saranno questi 10 miliardi di tagli a far crollare la Sanità Pubblica? probabilmente no, ma l'inevitabile peggioramento dei servizi farà aumentare il sentimento di insoddisfazione e rancore nell'opinione pubblica che, opportunamente condizionata dal lavoro dei media (mi aspetto una ricca produzione di servizi-choc sulla malasanità nei prossimi mesi), creerà il clima più favorevole alla definitiva privatizzazione della Sanità sul modello americano. E se non saranno sufficienti questi tagli, la procedura sarà ripetuta e ripetuta finché non si otterrà il risultato sperato.

L'obiettivo finale in tema di Sanità è talmente chiaro che qualcuno già si spinge a descrivere il futuro che ci aspetta: è il caso del Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che in un articolo sul Messaggero si augura la creazione di "un 'secondo pilastro' privato e integrativo", ovviamente foraggiato da denaro pubblico sotto forma di "idonee politiche fiscali che favoriscano l'afflusso di risorse da parte delle famiglie e dei lavoratori". Traduzione: rendiamo indecente il Servizio Sanitario Nazionale a furia di tagli, poi proponiamo sgravi fiscali per i cittadini che sottoscrivono assicurazioni sanitarie private ed otteniamo un bel mercato tutto nuovo in cui sguazzare dove prima c'era un diritto garantito dallo Stato.

E' la stessa identica strategia che portò alla fine di un istituto fondamentale per la crescita economica nazionale come l'Iri (ricordate il famigerato luogo comune del "carrozzone di Stato"?), la stessa che sta portando allo smantellamento del trasporto pubblico urbano a Roma, come coraggiosamente denunciato dall'autista Christian Rosso nel video di Youtube di cui tanto si parla in questi giorni.

Così, mentre i lavoratori privati vengono aizzati contro gli statali, gli statali contro i professionisti, i precari contro i lavoratori a tempo indeterminato, i giovani contro gli anziani, il progetto di distruzione dell'assetto sociale costruito in più di un secolo di lotte, lo smantellamento sistematico delle garanzie e delle tutele tipiche degli Stati Nazionali procede senza sosta.
La fame del redivivo Ancient Régime liberista e internazionalista è infinita, e la sua preda preferita siamo noi.

giovedì 9 luglio 2015

Il più grande successo dell'€uro

(ap - giannakouris)
A pochi giorni dal referendum greco, la confusione regna sovrana: i governi europei sembrano inchiodati sulle stesse posizioni della scorsa settimana, pretendendo da Atene una nuova ondata di riforme fatta di più tasse, privatizzazioni, aumento dell'età pensionabile e precarizzazione del lavoro. Le solite ricette che hanno fallito ovunque ma che vengono stolidamente riproposte come un dogma imprescindibile dagli euristi di tutto il continente. I paesi creditori, inoltre, rifiutano anche solo di parlare di taglio del debito e sembrano preferire lo scenario del Grexit alla creazione di un precedente che potrebbe essere pericoloso per i loro denari.

Dall'altra parte dell'oceano invece si tenta di tutto per evitare il Grexit, sia perchè  il crollo dell'Ue vanificherebbe il redditizio TTIP ormai alle porte, sia perché una Grecia cacciata e messa in quarantena dagli altri stati europei non potrebbe che guardare ad oriente per la propria sopravvivenza.
Magari dando alla nuova banca dei Brics concorrente dell'FMI, la NDB, l'occasione per dimostrarsi più efficace ed appetibile rispetto all'istituzione guidata dalla Lagarde sotto la regia di Washington.

Anche lo stesso governo greco, fautore del referendum, appare confuso: probabilmente Tsipras puntava ad una vittoria di misura per poter trattare condizioni leggermente più favorevoli con cui tenere a bada la sua opinione pubblica, e invece si è trovato tra le mani un bazooka politico che gli impone di non tornare se non con un accordo radicalmente più favorevole ad Atene di quelli finora in discussione. Pena una rapidissima e forse esiziale crisi di consensi.
In questo senso la prima mossa greca dopo la schiacciante vittoria dei No, la testa del ministro-simbolo Varoufakis offerta sull'altare delle trattative, sembra un modo per ammorbidire la posizione di Atene e dimostrare la volontà di trovare un compromesso.

L'Unione Europea somiglia ad una stanza in cui tutti hanno iniziato a gridare contro tutti, e nessuno sembra accorgersi dell'enorme elefante che si trova proprio nel centro: la costruzione europea per come la conosciamo è già fallita, ed era fallita prima ancora di iniziare.

Il tentativo di formare ex nihilo un'unione che cancellasse gli stati nazionali del continente non poteva avere successo, come non ha mai avuto successo in tutta la storia dell'umanità. La maggior parte degli stati multinazionali del passato è esistita solo a seguito della repressione della nazione più forte ai danni delle più deboli, oppure per imposizione di potenze straniere: è il caso, tra gli altri, dell'Impero Austro-Ungarico, della Yugoslavia, dell'Unione Sovietica e della Cecoslovacchia.

E' sempre finita male.

Anche gli stati multinazionali ancora esistenti sono continuamente alle prese con rivendicazioni di autonomia più o meno violente: Regno Unito, Belgio, Cina, Russia: ovunque prima o poi una parte della popolazione compie un percorso identitario ed inizia a lottare per decidere autonomamente del proprio futuro.

Gli ideologi ed i fautori dell'Unione Europea, a partire dal famigerato Manifesto di Ventotene, hanno pensato di poter liquidare l'esperienza degli stati nazionali d'un colpo, ignorando deliberatamente le profondissime differenze di cultura, mentalità, pensiero, abitudini, storia, persino lingua che passano tra i vari popoli d'Europa. Come se tutti questi fattori non contassero nulla. Come se l'appartenenza ad un popolo piuttosto che ad un altro fosse un mero orpello privo di significato. Secondo la loro visione del mondo, un uomo è scisso dal contesto sociale in cui vive e può essere indifferentemente aggregato ad una comunità piuttosto che ad un'altra senza che ciò provochi in lui la minima ripercussione. Esattamente ciò che accadeva prima della nascita degli Stati Nazione, quando i sudditi di un re potevano svegliarsi una mattina e scoprire di appartenere ad un altro re, senza avere alcuna voce in capitolo.
Bel progresso, non c'è che dire.

Su questa base traballante, hanno gettato l'insostenibile peso dell'euro, moneta sbagliatissima che non fa altro che drenare risorse economiche e umane dai paesi periferici verso quelli centrali, e dalle classi sociali più umili verso quelle più potenti, aggravando irreversibilmente il dislivello tra nazioni e persone all'interno di queste. Le voci che negli ultimi anni hanno espresso una critica radicale dell'euro sono numerose ed autorevoli, ma all'interno del fortino di Bruxelles si fa finta di niente e si bolla come "populista" nell'accezione deteriore del termine chiunque osi criticare l'idolo monetario unionista.

Ora sembra che alcuni nodi stiano venendo al pettine, l'edificio sballato dell'Unione trema mentre ovunque si fanno sempre più forti le voci delle varie nazioni, mano a mano che i cittadini si accorgono di essere finiti nella rete di un sistema che per esistere deve sospendere a tempo indefinito la democrazia (perché tutte le decisioni importanti vanno prese al riparo dal processo elettorale, ipse dixit) e generare crisi sempre più violente che pieghino le resistenze dei cittadini rispetto al processo in corso: “E’ chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. […] Abbiamo bisogno delle crisi per fare passi avanti.

Peccato che le cose non stiano andando così, e ad ogni stretta della morsa eurista sempre più cittadini in tutta Europa stiano iniziando a rispondere riscoprendo il valore della propria identità nazionale, dell'autonomia decisionale e delle garanzie democratiche che finora gli Stati Nazionali hanno saputo garantire più e meglio di qualsiasi altra forma di governo conosciuta. In breve, i popoli d'Europa si stanno lentamente risvegliando dall'ipnosi del sogno europeo e tornano a reclamare la concretezza della propria sovranità nazionale.

Domenica sera Piazza Syntagma era affollata di greci in festa, per la maggior parte giovani (il No è stato votato dal 70% dei greci tra i 18 ed i 25 anni), moltissimi con in mano la propria bandiera nazionale:


(epa)
(afp)

Eccolo il più grande successo dell'€uro: un popolo che ha subito in pace gli stessi danni di una guerra, che si è visto negare qualsiasi pietà umana ma al contrario è stato umiliato e messo alla gogna per le difficoltà in cui si trova, scende in piazza e rivendica la propria autonomia decisionale, la libertà di tornare padrone del proprio futuro. Il sonno della Nazione greca sembra avviato alla fine, e questo è un processo che né Bruxelles, né l'Fmi, né lo stesso Tsipras potrà fermare.

lunedì 29 giugno 2015

Grecia, ultimo atto?



E così siamo arrivati al referendum.

Dopo la rottura delle trattative tra Grecia e Troika (ma non chiamatela così, per carità) per l'improvviso irrigidimento del Fondo Monetario Internazionale, Tsipras ha giocato la carta della consultazione popolare per decidere se accettare o meno il piano stabilito dai creditori.

Non si tratta di una mossa inedita: nel 2011, con una Grecia già al collasso ma in una situazione complessiva migliore della attuale, l'allora primo ministro Papandreou tentò di chiamare la popolazione al voto per decidere se rimanere o meno nell'euro. Il referendum fu poi annullato a causa delle fortissime pressioni della comunità internazionale, Papandreou dovette dimettersi e ne seguirono tre governi allineati al volere della Troika, che diedero il via alle onnipresenti riforme strutturali per risanare il bilancio, con l'unico risultato di precipitare le condizioni di vita della popolazione ad una situazione da terzo mondo, senza peraltro migliorare significativamente la condizione economica nazionale.

Stavolta il referendum si farà, ed anche se non viene esplicitamente messa in discussione la permanenza nell'eurozona, appare molto difficile che Atene possa rimanere nella moneta unica in caso di bocciatura delle proposte della Troika. Nel frattempo si è scatenato il caos nella popolazione, con relativa corsa ai bancomat per prelevare quanto più contante possibile, sostanziale blocco delle entrate fiscali e via dicendo.

In Italia, tra i più entusiasti per la decisione del governo greco c'è Grillo, che ha lodato pubblicamente Tsipras e si è detto convinto che la scelta referendaria sia la soluzione migliore per la Grecia.

Io non ne sarei così sicuro.

Intanto non capisco perché un governo eletto democraticamente da appena 6 mesi abbia bisogno di una ulteriore legittimazione. Affidarsi al volere popolare avrebbe avuto un senso in Italia, che di fatto è governata (ormai già dal 2011) da premier privi di esplicito mandato elettorale, ma non ne ha alcuno in Grecia. "Potere al popolo" è uno slogan affascinante, ma piuttosto surreale quando il popolo quel potere l'ha già esercitato una manciata di settimane fa, premiando Syriza proprio per il suo impegno a chiudere con l'austerità ed i diktat di Bruxelles.

Poi c'è da valutare il livello di consapevolezza dei greci sulla questione. Stando al World Press Freedom Index 2015, la Grecia si posiziona al 91° posto su 180 per quanto concerne la libertà di stampa, penultimo paese tra quelli dell'Unione Europea e quasi 20 posizioni sotto l'Italia. Nel commento si sottolinea come "the economic crisis has had a grave impact on pluralism in both state and privately-owned media" (la crisi economica ha avuto un grave impatto sul pluralismo sia nei media pubblici che in quelli privati). Siamo sicuri che una popolazione sottoposta ad un bombardamento informativo orientato a descrivere l'uscita dall'euro come una catastrofe irrimediabile possa esprimersi serenamente?

L'ultimo dubbio riguarda l'opportunità di ricorrere a referendum su temi così complessi. Anche ammesso che sia giusto per un governo appena eletto cercare nuova legittimazione popolare, e che il popolo in questione goda di un'informazione totalmente libera e plurale, quanta parte di questo popolo è effettivamente in grado di farsi un'opinione approfondita su un quesito così tecnico? E' verosimile che avvocati, artigiani, ingegneri, disoccupati, in una parola l'intero corpo elettorale esclusi gli economisti, riescano a comprendere il senso profondo del referendum, le varie implicazioni tecniche che comporta... in 7 giorni?

La democrazia rappresentativa non nasce forse perché gli elettori diano un indirizzo politico generale, che deve essere applicato nel concreto da persone preparate per questo? Che senso ha eleggere premier, ministri, sottosegretari, commissioni di ogni genere e tipo che a loro volta interrogano esperti, tecnici, teorici etc etc... se poi davanti alla scelta più difficile nella storia di un popolo nessuno di costoro si assume le proprie responsabilità?

Vista da qui, più che un coraggioso atto democratico la scelta di Tsipras sembra un pavido tentativo di scaricare le responsabilità di una scelta difficile su tutti i cittadini, mettendo se stesso ed il governo al riparo sia in caso di successo ("non sono io che ho voluto la rottura, è il popolo") che di fallimento del referendum ("cari greci, ecco una nuova dose di bastone. Ma tanto l'avete voluto voi...").

In ogni caso la scelta del governo greco, per quanto discutibile, è comunque un passo avanti rispetto al lento logoramento cui la Grecia è sottoposta da anni. La speranza è che i greci partecipino al referendum e dichiarino chiaro e secco il loro NO ad un sistema di gestione del potere antidemocratico, antinazionale e antipopolare.

giovedì 18 giugno 2015

Vendere il Medio Evo e chiamarlo futuro



Poi capita di imbattersi in questo articolo del Sole 24 Ore che spiega come il colosso del commercio elettronico Amazon stia pensando a come impiegare la "geniale intuizione di fondo" alla base di Uber per abbattere i costi di consegna dei propri articoli.

L'idea è quella di reclutare attraverso una App utenti che, dietro il pagamento di un piccolo compenso, si incarichino di consegnare i pacchi per conto della multinazionale "a indirizzi che incroceranno lungo la loro strada". Questo permetterà ad Amazon di azzerare o quasi il ruolo delle compagnie di spedizione nel suo business. L'articolo suggerisce anche che probabilmente la multinazionale farà passare i compensi per rimborsi spese, per proteggersi dal fisco. Il nome di questo programma dovrebbe essere "On My Way".

Niente più fattorini, quindi, ma persone qualsiasi che in cambio di una piccola cifra si occupano della consegna di pacchi. Con risparmio sia per chi acquista la merce di Amazon che per la stessa azienda di Seattle.

Tutti contenti, quindi? No.

Come già nel caso di Uber, ciò che viene spacciato per progresso, frutto della moderna tecnologia e di un nuovo concetto di economia, somiglia tantissimo a qualcosa che l'Europa ha già vissuto prima del XIX secolo: lavoro privo di qualsiasi tutela.

Il fatto che sia Uber che la nuova App di Amazon sfruttino ampiamente gli smartphone nasconde sotto una patina di modernità un ragionamento incredibilmente arcaico: abbattere i costi di un servizio sostituendo la manodopera professionale con altra improvvisata. Si tratta di un salto indietro nel tempo degno del miglior Marty McFly, che fa regredire la condizione dei lavoratori a prima dell'inizio delle lotte sindacali, quando erano alla completa mercé del datore di lavoro che non aveva altro obbligo nei loro confronti se non quello di pagare una certa cifra a fronte del lavoro svolto. Niente contributi previdenziali, niente ferie, niente protezioni in caso di infortunio o malattia, totale libertà di licenziamento per qualsivoglia motivo.

La cosa più grave è che nel mirino di questo tipo di iniziative c'è proprio il settore di lavoratori più deboli, quelli a scarsa/nulla specializzazione, che già tradizionalmente soffrono di alta sostituibilità, scarso potere contrattuale e, di conseguenza, basso reddito. Il settore che maggiormente andrebbe tutelato dalla speculazione al ribasso, insomma.

Dovesse prendere piede, la "geniale intuizione di fondo" di Uber & affini potrebbe costituire l'ennesimo mattone nella costruzione di un mondo in cui una parte della popolazione non abbia più una vera occupazione, ma sia costretta a cercare mese per mese la propria sopravvivenza dividendosi tra una miriade di piccoli lavoretti senza alcuna affinità tra loro, senza prospettive di crescita o stabilità, senza protezione di alcun tipo. Tutto questo fino alla morte, visto che si tratta sempre di attività che non contemplano assunzione, né ovviamente contributi previdenziali e neppure permettono, per la scarsa redditività, di sottoscrivere pensioni integrative. Il tutto a vantaggio della parte di società che svolge lavori troppo specialistici per poter essere "improvvisati" da non professionisti.

Se nel corso degli ultimi due secoli si è optato per un modello occupazionale che contemplasse specifiche tutele per i lavoratori e obblighi per i datori di lavoro non è per capriccio né per caso, ma esattamente per cercare di mitigare il divario tra parti della società cercando di ottenere un minimo benessere diffuso. Scardinare questo modello non ha niente di moderno o progressista, è anzi tornare in pieno alla società presindacalizzata, al padrone despota di manodopera senza diritti né voce. Solo che questo padrone ha un logo in vece del volto, un brand in vece del nome e un consiglio d'amministrazione in vece della magione.

Benvenuti nel futuro, e se avete quella strana sensazione che somigli un po' troppo al medioevo non fateci caso: dopotutto ora usiamo gli smartphone!

venerdì 5 giugno 2015

JobsActnotti


Lo ammetto: a me in fondo Jovanotti sta pure simpatico.

Sarà che, per pura coincidenza temporale, le sue canzoni hanno involontariamente segnato un pezzetto della mia infanzia (le feste di compleanno in casa di amici con l'immancabile cassetta di "La mia moto") e adolescenza (gli anni del liceo, le ragazze e l'immancabile "Bella" a fine serata).

Gli riconosco anche l'apprezzabile capacità di adattarsi ai tempi, soprattutto con la clamorosa evoluzione tra la fine degli anni 80 e l'inizio dei 90, quando improvvisamente si trasformò da ragazzotto rumoroso e festaiolo a fine pensatore e critico sociale, riuscendo a scivolare senza grossi attriti da una fetta di mercato all'altra e conquistandosi anzi repentine lodi e attestati di stima da parte della solita intellighènzia che-tutto-giudica.

Niente di personale, quindi, nel dire che con questa uscita ha detto una mastodontica cazzata.

E hanno poco da lavorare di penna i vari soccorritori di turno che si sono precipitati a correggere, inquadrare, contestualizzare le parole del Sig. Cherubini. 
Una cazzata è una cazzata. Punto.

E il lavoro è tale solo quando è retribuito. Senza paga si chiama volontariato o sfruttamento, e spesso il confine tra i due mondi è sottilissimo. Un conto è fare il cameriere alla Sagra della ranocchia, luogo e contesto che suggeriscono e legittimano la presenza di volontariato, un altro fare il fonico - addetto alle luci - qualsiasi altra mansione ad un festival musicale. Quello è lavoro e va pagato, come vengono pagati gli artisti che si esibiscono sul palco.

Tutto il resto, l'arricchimento spirituale, la responsabilizzazione, l'esperienza, non ha niente a che vedere con il venire o meno retribuiti. Un giovane che affronta il primo incarico lavorativo percependo uno stipendio fa la stessa esperienza, mostra la stessa passione, ha la stessa maturazione di uno che lavora "gratis". Anzi di più, perché comprende come il suo impegno abbia ripercussioni concrete sulla sua vita, e impara che il suo tempo e la sua abilità - o la sua volontà di maturare abilità - hanno un valore materiale oltre ad averne uno spirituale.

Ma viviamo nel tempo dell'Ancien Régime 2.0 e la nuova aristocrazia nei suoi castelli di vetro e cemento armato è impegnata con tutte le sue forze ad eradicare con ogni mezzo dalle coscienze stesse del popolo la coscienza di sé, dei propri diritti e della propria forza: non può stupire che un simpatico artista ultraquarantenne che non ha mai vissuto il dramma del precariato o di una vita da affrontare in bilico sulla corda di uno stipendio che diventa sempre più sottile faccia un po' di confusione tra i volontari di una sagra di paese e lo sfruttamento di manodopera gratuita nell'organizzazione di eventi.

Diciamo che la boutade del Jova, senz'altro "Voce dal sen fuggita", è la faccia sorridente della "durezza del vivere" tanto agognata in passato da qualcuno (solo per gli altri, però); una vaga eco remixata di vitalismo ed energia dell'originale urlo di guerra di chi vuole cancellare dalla storia il sistema sociale sviluppatosi in Europa tra XIX e XX secolo ed il relativo benessere diffuso.

Tra un Jobs Act che mette i lavoratori sotto la costante minaccia di licenziamento, una riforma delle pensioni che di fatto ha cancellato questo istituto dal futuro di intere generazioni (a partire dalla mia), un lavoro ai fianchi della scuola per renderla sempre meno luogo di vita e cultura e sempre più officina per la produzione di manodopera acritica, cosa volete che sia l'invito a lavorare senza retribuzione? Il futuro è di chi meglio compiace il mercato, ed il mercato del lavoro premia chi costa di meno. Meglio fare allenamento da subito.


domenica 24 maggio 2015

100 anni fa, la guerra.

"Sono giunto e non indietreggerò", motto del 92° Reggimento fanteria "Basilicata"

Esattamente cento anni fa, il 24 maggio 1915, l'Italia viveva il suo primo giorno di belligeranza nella Prima guerra mondiale. Il conflitto per noi sarebbe durato 3 anni e mezzo e si sarebbe concluso con la vittoria, al carissimo prezzo di 1.240.000 caduti tra militari e civili.

Un secolo dopo, le istituzioni si apprestano a vivere la ricorrenza con indifferenza, se non con fastidio. Le iniziative organizzate per ricordare il centenario sono modeste sia nei toni che nei contenuti. Il focus di quasi tutte è sugli orrori, sulla durezza, sul dolore delle trincee; molto spesso ricorre la definizione di "inutile strage" utilizzata dal papa di allora, Benedetto XV. Si dà per scontata la teoria che vuole nel malsano nazionalismo la causa della guerra e dell'affermazione dei movimenti totalitari negli anni successivi all'armistizio, a loro volta causa della seconda guerra mondiale. Ne deriva che per conseguire e mantenere la pace è necessario innanzitutto liberarsi del nazionalismo.

Beh, questa roba non sta in piedi. Dato per scontato che la guerra è sempre e comunque una strage e che non è mai auspicabile il ricorso alle armi, addossare al nazionalismo la colpa della Grande guerra e di tutte le sciagure che afflissero l'Europa nei 30 anni successivi è un clamoroso, e forse interessato, errore. Perché la prima guerra mondiale ebbe origine dall'antistorico tentativo di reprimere la volontà dei popoli ed il loro diritto di organizzarsi in nazioni libere e omogenee. Non fu il nazionalismo, ma chi gli si opponeva a causare il crollo del continente e la strage.

Già da un secolo, prima della Grande guerra, l'Europa era scossa da un imponente moto interno che ne stava ridisegnando la fisionomia: dalla Grecia all'Italia, dalla Polonia all'Ungheria, ovunque si lottava per superare gli ammuffiti resti dell'Europa feudale e per costruire nuovi stati, non più disegnati a tavolino sui voleri delle dinastie regnanti, ma maggiormente rispondenti alle esigenze ed alla volontà dei popoli. Le lotte per l'unità e l'indipendenza delle nazioni si accompagnarono quasi ovunque alle lotte per i diritti dei popoli, alla pretesa di Costituzioni scritte che impegnassero i governanti a doveri precisi nei confronti dei cittadini.

Nel 1914 esistevano nel continente due Imperi sovranazionali che incorporavano nel proprio territorio popoli diversi per storia, costumi, lingua e religione: l'Impero austro-ungarico e l'Impero ottomano. Mentre il secondo era già in via di disfacimento, il primo era sotto diversi aspetti ancora efficiente e vitale, con una monarchia costituzionale e un assetto federale che riconosceva pari dignità almeno alle due etnie maggiori (tedeschi e ungheresi). Ma ciò non bastò a fermare la spinta verso l'unità e l'indipendenza dei popoli che lo componevano. Serbi, cechi, sloveni, italiani, croati, romeni: popoli diversi, con storie, tradizioni e volontà diverse, tenuti forzatamente assieme in un gigantesco Interessenstaat (Stato d'interessi, come lo definì il feldmaresciallo Conrad), spingevano inesorabilmente ognuno verso la propria libertà, che fosse intesa come riunione alla madrepatria (italiani, serbi, romeni) o rinascita di una patria comune (polacchi, cechi, croati, slovacchi).

L'origine della guerra non fu il nazionalismo, ma la repressione delle aspirazioni alla libertà ed all'indipendenza delle nazioni.

Accadde nel 13° secolo con le guerre d'indipendenza scozzesi, nel 16° con la rivolta dei Paesi Bassi, nel 18° con la guerra d'indipendenza degli Stati Uniti, all'alba del 19° secolo nell'America Latina e via via fino ad oggi, con le rivolte e le secessioni che segnarono il disfacimento dell'Unione sovietica e della Jugoslavia. Ogni volta che nella storia un popolo prende coscienza di sé e della sua unicità, quel popolo inizia a reclamare libertà e indipendenza, e non si ferma se non quando le ha ottenute. La Prima guerra mondiale segna in Europa la morte degli Stati intesi come meri possedimenti dinastici, in cui i popoli passano di sovrano in sovrano alla stregua di bestiame, e una vittoria (seppur parziale e temporanea) degli Stati-Nazione, espressione della libera volontà dei popoli.

Per l'Italia la grande guerra avrebbe dovuto costituire l'ultimo atto dell'immane processo di unificazione e indipendenza che aveva occupato tutto il 19° secolo. Fu un impegno terribile, durante il quale soldati e civili subirono fame, freddo, malattie, mutilazioni, ferite profondissime nel corpo e nella psiche, aggravate dall'ottusità degli ordini di una parte del comando militare. Nonostante questo, nonostante tutto il male che è ogni guerra centinaia di migliaia di italiani compirono il loro dovere fino in fondo. Persone comuni con vite comuni: affetti, famiglie, speranze e paure; spinte dalle più diverse motivazioni seppero affrontare quella orrenda prova per tre anni e mezzo, cessando il proprio impegno solo quando ovunque furono deposte le armi. Nessuno dei caduti, nessuno dei feriti nessuno degli sfollati fu "invano": questo avverbio è un insulto per chi avrebbe potuto fuggire e rimase, avrebbe potuto ignorare e partecipò, avrebbe potuto serbare e donò.

mercoledì 13 maggio 2015

Un governo Arlecchino tra vincoli e Consulta



La sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il blocco degli adeguamenti pensionistici imposto dalla riforma Fornero deve aver colpito duramente i nostri reggenti, evidentemente presi alla sprovvista da una decisione che va, seppur timidamente, in senso opposto rispetto ai programmi stabiliti per il futuro della previdenza italiana.

Colpo basso - perché arriva da un organo "amico", artefice solo qualche mese fa della bocciatura del referendum che la legge Fornero voleva abrogarla - e forte - perché il governo non può permettersi il crollo di popolarità inevitabile in caso di mancato o insufficiente rispetto della decisione della corte, ma non può neanche tornare indietro sull'agenda imposta da Bruxelles, che va in direzione di una costante riduzione della previdenza pubblica.

Come Arlecchino, l'esecutivo si trova ora nella sgradevole condizione di dover servire due padroni dagli interessi opposti: il più importante è Bruxelles, che infatti ha subito ringhiato per riportare all'ordine il servitore maldestro; l'altro è l'elettorato, padrone sempre meno importante e piuttosto distratto, ma ancora utile e fortemente attaccato al tema delle pensioni.

Per uscire da questa situazione imbarazzante intanto ci si è affidati alla collaudatissima macchina della propaganda, che ha iniziato a creare un frame adatto al caso:

La sentenza della Corte Costituzionale è un costo per le tasche degli italiani, e rischia di far saltare i conti pubblici tanto attentamente curati dal governo.

Questo frame poggia su una mezza verità, perchè effettivamente il rimborso degli adeguamenti è un costo per le casse dello Stato. Peccato che ne venga completamente ignorata la causa: una riforma delle pensioni sbagliata e anticostituzionale, che intendeva derubare i cittadini di diritti acquisiti in decenni di lavoro. L'ipotetico risanamento dei conti pubblici avviato nel 2011 (altro frame abusatissimo) si basava in pratica sulla negazione di un diritto, sulla violazione del patto stipulato tra cittadini e Stato durante la vita lavorativa dei primi. Ora che la Consulta chiede allo Stato di ripianare quell'abuso, viene fatta passare per "cattiva", "sprecona" e via insinuando. Tra un diritto sancito dalla Costituzione e un diktat di Bruxelles, insomma, si cerca di far schierare l'opinione pubblica per il secondo e contro il primo, perché nel nuovo modello di Stato in via di perfezionamento in quel grande laboratorio distopico detto Unione Europea c'è un solo valore sacro e inviolabile: i conti in ordine. Tutto il resto, il benessere dei cittadini, il loro diritto ad avere una vita dignitosa, un lavoro stabile, una pensione giusta, una vecchiaia serena è, anzi deve essere, sacrificabile.

Quanto costa restituire il maltolto e come restituirlo
Entrando nello specifico dei costi del rimborso le cifre in ballo variano sensibilmente, ma il totale dovrebbe assestarsi intorno ai 14 miliardi di euro netti (fonte: Corriere della Sera). Una cifra importante, che ha già fagocitato il fantomatico "tesoretto" apparso a marzo e minaccia di portare alla riduzione o all'azzeramento di una serie di detrazioni e deduzioni che attualmente garantiscono un filo d'ossigeno ai contribuenti.

Ma davvero l'Italia è incapace di trovare una quindicina di miliardi per restituire ai pensionati ciò che è loro?

A guardare bene, ci sono ambiti della spesa pubblica in cui si sprecano sistematicamente cifre molto più alte. Ecco due esempi:

1- Contributi annuali all'Unione Europea
Come un vero stato vassallo, ogni anno la nostra nazione versa un obolo alla Ue, che poi ne restituisce una piccola parte sotto forma di "fondi europei". Solo tra il 2011 ed il 2013 l'Italia ha versato all'Unione circa 19 miliardi di euro in più rispetto a quelli presi con i fondi europei. Non si potrebbe fare una spending review di questo fiume di denaro, che va ad aiutare le economie di nazioni in competizione con la nostra, in favore dei nostri pensionati?

Spendere 19 miliardi per sostenere economie rivali della nostra si può, spenderne 14 per restituire ai pensionati un loro diritto no.

2- Salvataggio delle banche
Negli anni tra il 2009 e il 2014 le nazioni europee si sono prodigate nel salvataggio di alcune banche (soprattutto francesi e tedesche) che avevano incautamente investito troppo nei titoli di paesi fortemente a rischio (come ad esempio Portogallo, Grecia, Spagna). Ciò è avvenuto sostanzialmente scaricando i debiti delle banche sui bilanci statali, quindi caricando i cittadini di un debito non loro. Prendo in prestito dal sempre ottimo L'Orizzonte degli Eventi il grafico di un notissimo quotidiano economico nazionale che illustra graficamente questa operazione limitatamente alla Grecia:


Capito? nei 5 anni in esame lo Stato italiano si è fatto carico di un debito di 40 miliardi di euro pur di salvare banche estere che avevano fatto cattivi investimenti. E questo esempio riguarda solo l'esposizione delle banche sulla Grecia. Non mi pare di aver sentito, tranne poche sacrosante eccezioni, urla disperate di giornalisti e politici a riguardo.

Spendere 40 miliardi per salvare banche estere da un guaio causato da loro si può, spenderne 14 per restituire ai pensionati un loro diritto no.

giovedì 7 maggio 2015

Panem et Electiones



E così, l'Italicum è legge.

A partire dal luglio 2016 si voterà (solo alla Camera, in attesa della distruzione riforma del Senato) con un sistema elettorale che consegna un premio di maggioranza pazzesco al partito che supera il 40% al primo turno o al ballottaggio, e contemporaneamente frantuma l'opposizione in una miriade di gruppuscoli in dissenso tra loro, a causa della bassa soglia di sbarramento (3%). L'obiettivo dichiarato era garantire la governabilità e da questo punto di vista il successo sembra innegabile.

La nuova legge elettorale continua il percorso iniziato con la legge Delrio, che terminerà con la riforma del Senato. Percorso che ha un comune denominatore: la marginalizzazione degli elettori.

In un tripudio di enti rappresentativi di secondo livello, primarie surrogate e capilista bloccati l'obiettivo dichiarato dal lungo serpente governativo Monti-Letta-Renzi - il taglio degli apparati burocratici e relative spese - viene clamorosamente fallito, mentre viene centrato in pieno l'obiettivo non dichiarato: il restringimento del perimetro decisionale dell'elettorato. Perchè a sparire non sono state le Province, ma il diritto di voto per eleggere i rappresentanti provinciali; così come non sarà il Senato, ma il diritto di voto per eleggere i senatori.

Il governo, egemonizzato da un partito che si autodefinisce Democratico (con tanto di D maiuscola) ribadisce così la propria visione aziendalistica dello Stato, dove i processi decisionali più sensibili sono messi "al riparo dal processo elettorale" (per dirla con le parole di un tecnico) e gli elettori vengono chiamati in causa più che altro per salvare le apparenze di legittimità. D'altra parte in società sempre più caratterizzate dal dominio di grandi gruppi privati sovranazionali pronti a fare business di ogni ambito della vita sociale, dalla sanità alla scuola, dalla gestione del territorio al controllo della moneta corrente, la cosa pubblica deve necessariamente farsi da parte e con essa le prerogative di selezione e controllo dei suoi titolari, i cittadini.

Questo processo non è un'invenzione di Renzi ma uno dei cardini stessi della costruzione europea, che infatti riserva all'unico organo elettivo, il Parlamento, poteri ampiamente minori sia rispetto al Consiglio che alla Commissione europea. Da questo punto di vista quindi l'Italia, da bravo Vicereame, si sta allineando alla forma istituzionale voluta dal Sovrano a costo di forzature alla stessa Costituzione, pensata per indicare una direzione completamente diversa da quella presa dalla Nazione almeno dall'inizio degli anni '80.

D'altra parte le Costituzioni non vanno più di moda, tant'è che l'Unione Europea è sopravvissuta tranquillamente alla stroncatura della propria.

mercoledì 22 aprile 2015

Expo 2015, storia di fannulloni e pallonari



Intanto la notizia: secondo l'agenzia di lavoro interinale Manpower circa l'80% dei giovani contattati per un lavoro di 6 mesi presso l'Expo - con paga tra i 1300 ed i 1500 euro netti al mese - avrebbe rifiutato la proposta disertando le selezioni, spesso senza neppure addurre una giustificazione.

Detta così, sembra la prova empirica definitiva del luogo comune che vuole i giovani italiani come irrimediabili fannulloni, una massa di "bamboccioni" senza capacità di sacrificio che non ne vogliono sapere di allontanarsi da casa di mamma e papà e inorridiscono davanti al concetto di lavoro. 
Con il tacito corollario del confronto con gli altri giovani, i tanto virtuosi stranieri che invece si rendono autonomi già a vent'anni, vivono da soli e in nome dell'indipendenza accettano anche i lavori più duri. Per non parlare degli immigrati (migranti secondo le ultime direttive del MiniVer) che "fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare".

Beh, questa è una enorme montagna di cazzate. Razziste, per di più.

Partiamo da un numero: 27.000.
Tante sono le richieste di assunzione arrivate a Manpower per i 646 posti a disposizione. Un numero enorme, che fa pensare a domande provenienti non solo dalla provincia di Milano o dalla Lombardia, ma dall'intero territorio nazionale, con buona pace di chi maligna che i giovani italiani non abbiamo voglia di muoversi da casa. Tra le 27.000 candidature, l'agenzia ne ha selezionate 646 per i colloqui, ma si sarebbe trovata di fronte un'inaspettata pioggia di rinunce e diserzioni. 
Perchè? Per quale motivo un giovane dovrebbe cercare un'opportunità di lavoro, trovarla, inviare la propria candidatura, passare le selezioni e poi improvvisamente rinunciare sparendo nel nulla? Volendo essere cattivi si potrebbe mettere in discussione la capacità dell'agenzia di individuare i candidati più adatti, avendo ottenuto un tasso di successo rispetto al proprio obiettivo di appena il 20%. Ma probabilmente il problema è un altro.

Per fare chiarezza, ho iniziato a spulciare il web e subito ho trovato diversi commenti di persone che sostenevano di aver partecipato alle selezioni in questione, ma raccontavano una realtà ben diversa da quella sparata sui grandi giornali.

Poi ho trovato questo articolo di Dario Ferri per Nextquotidiano che racconta bene l'altro punto di vista, quello dei giovani che hanno provato a farsi avanti per lavorare all'Expo, e mette in discussione diversi punti importanti della versione ufficiale, a partire dall'importo dello stipendio offerto. Perché tra i 1300-1500 euro al mese della versione ufficiale e i 500 di cui si parla in alcuni dei commenti c'è una bella differenza, la differenza che passa tra accettare e rifiutare una proposta di lavoro. Soprattutto se da questo importo bisogna togliere le spese di vitto, alloggio e trasporto.

Capire quale sia la verità in questa faccenda non è facile, ma unendo i trattini della disoccupazione giovanile (44%), delle richieste arrivate per il lavoro all'Expo (27.000 per 646 posti) e delle richieste per il lavoro da volontario non retribuito sempre all'Expo (16.000 per 9.000 posti) il quadro che emerge è parecchio lontano dall'offensivo stereotipo del giovane italiano scansafatiche, e si avvicina piuttosto a quello di una certa stampa "pallonara".

P.S. Anche qelsi.it ha pubblicato un articolo interessante sull'argomento, potete leggerlo qui.

Aggiornamento del 23.04: a seguito dell'ondata di proteste che sembra essersi levata sul web, alcuni giornali tra cui l'Huffington Post hanno leggermente rettificato la notizia. Bene correggere l'errore, ma il timore è che ormai l'opinione pubblica meno informata (che è poi la maggior parte) abbia recepito il messaggio "giovani italiani = lavativi", lanciato con forza ben maggiore delle smentite.

martedì 31 marzo 2015

Poletti, Marino e la rivincita dei Puritani


La recente proposta del ministro Poletti di ridurre le vacanze estive degli studenti e la quasi contemporanea stretta del sindaco Marino sulle pubblicità "sessiste" nei cartelloni pubblicitari a Roma rappresentano due aspetti di una corrente di pensiero presente in parte della classe dirigente nazionale, che si potrebbe definire in sintesi "neo-puritanesimo".

Del movimento nato nel XVI secolo come costola del calvinismo i neo-puritani hanno due aspetti fondamentali: la convinzione di essere predestinati a guidare la società verso un futuro certo e inevitabile (la volontà di Dio all'epoca, il cosiddetto "politicamente corretto" ora) e l'insofferenza verso tutto ciò che è leggerezza, divertimento o anche semplicemente ozio.

Per questi nuovi paladini del rigore morale le vacanze estive degli studenti sono "tre mesi senza far nulla", che potrebbero essere meglio impiegati "lavorando tre o quattro ore al giorno", mentre al solo vedere una figura femminile che si occupa (orrore!) della propria casa o della propria famiglia, o che non mortifica la propria bellezza si urla immediatamente allo "sfruttamento del corpo femminile" ed all'inevitabile "sessismo" (che poi è sempre e solo maschilismo).

Fin qui poco male: in democrazia ognuno può manifestare le proprie idee, per quanto grigie e bigotte siano. Il problema dei neo-puritani però è che non si limitano ad esprimere un'opinione, né a tentare di influenzare la società a livello culturale. Loro impongono, decretano, reprimono, obbligano.

Così a Roma i cartelloni pubblicitari saranno passati preventivamente al vaglio di una sorta di Ufficio Censura: la casalinga ai fornelli è sessista, la manager in tailleur va bene; la ragazza in bikini è offensiva, l'uomo in mutande no.

L'immagine di sinistra è sessismo, quella di destra modernità
Allo stesso modo è già in cantiere un provvedimento per ridurre il tempo libero degli studenti tramite non meglio specificate "attività". Magari qualche bello stage non retribuito, tanto per abituare le future generazioni a quella durezza del vivere che tanto piaceva a qualcuno.

Il punto che questa gente non riesce a capire è che le società umane necessitano anche di momenti di ozio, anche di divertimento fine a se stesso, anche di spazi di cattivo gusto. La foga censoria, il voler a tutti i costi reprimere la leggerezza, lo svago, la battuta triviale, non fa altro che comprimere e frustrare questi istinti, e la frustrazione porta inevitabilmente ad un aumento dell'aggressività, questa sì socialmente pericolosa.

Un buon governante dovrebbe lavorare su questi temi soprattutto a livello culturale, promuovendo il proprio punto di vista e cercando di renderlo maggioritario nella popolazione; si può auspicare che gli studenti impieghino parte delle vacanze estive per attività di avvicinamento al mondo del lavoro, e si può spiegare che alcune pubblicità fanno scorrettamente leva su istinti sessuali anziché promuovere il prodotto che presentano, ma non si può usare la scure della legge per sagomare lo spirito di una società secondo i propri desideri.

E invece siamo di fronte alla continua intrusione nelle nostre vite degli alfieri del neo-puritanesimo, che in nome della loro presunta superiorità morale storpiano e stravolgono la legge per imporci cosa fare del nostro tempo libero, come usare il nostro corpo, come organizzare la nostra vita familiare, come essere donne e uomini.

Esattamente ciò che voleva il puritanesimo 5 secoli fa. 
Ma con una bella dose di politicamente corretto in più.

giovedì 19 marzo 2015

La guerra dei bottoni



Passata un po' in sordina per l'accavallamento con i più tragici fatti di Tunisi, ieri a Francoforte c'è stata l'inaugurazione della nuova sede della Bce: un "austero" grattacielo di 185 metri nella Grossmarkthalle costato circa un miliardo e duecento milioni di euro.

Ad accompagnare il lieto evento si sono radunate a Francoforte folle festanti di "cittadini europei", desiderosi di ringraziare le istituzioni per il benessere, la pace e la democrazia che l'Unione ha saputo portare nel vecchio continente... 

Beh, non proprio.

350 fermi, 16 arresti, dozzine di feriti, auto bruciate, vetrine fracassate, un intero quartiere blindato con filo spinato, elicotteri di pattuglia e cordoni di polizia in assetto antisommossa; ciò che si è visto a Francoforte aveva più il sapore della rivolta contro un'istituzione sempre più percepita come oppressiva e lesiva della dignità e del benessere dei popoli che le si sono affidati, piuttosto che quello della celebrazione di uno dei capisaldi (forse l'unico) della cosiddetta Unione Europea.   

Sembra che questa "Unione nata per la pace" stia diventando un immenso catalizzatore di rabbia, dolore, miseria. Ma c'è un però.

Ho deciso di intitolare questo articolo "La guerra dei bottoni" perché guardando le immagini delle migliaia di protestanti, sia quelli pacifici che soprattutto gli altri, ascoltando i loro slogan e leggendo le dichiarazioni a caldo di Draghi, la sensazione che ho è quella di una tragica pantomima in cui l'intero dibattito sul tema della crisi nel continente sia ingabbiato entro limiti prefissati che, guarda caso, tendono ad escludere il fattore principe della crisi stessa.

"No all'austerità", "Basta Troika", "In Europa più Atene e meno Berlino" sono slogan accattivanti che però si muovono tutti nel recinto della continuità dell'Unione Europea, che di volta in volta si vorrebbe "riformare", "umanizzare", "deberlinizzare". Questi oppositori, violenti o no, istruiti o no, in buona fede o no, sono tutti persi nel "sogno europeo" e non intendono minimamente metterlo in discussione. Tantomeno intendono mettere in discussione il dogma dei dogmi: la moneta unica, l'euro.

I vari Blockupy, come anche le Syriza, i Podemos e compagnia varia pretendono di curare il cancro senza rimuovere il tumore, perfettamente incardinati all'interno del frame imposto dall'Unione Europea che vede lo svuotamento degli Stati Nazionali come valore positivo da perseguire più velocemente possibile. Intossicati da una distorta lettura della storia recente ritengono che il sentimento nazionale sia la causa prima delle guerre ed hanno in odio il concetto di confine che intendono sempre e solo come limite, mai come semplice rimarcazione territoriale di identità, tradizioni e culture diverse. I sedicenti no global sono in fondo i primi paladini della globalizzazione, di cui si limitano a contestare solo le storture più macroscopiche senza mai contestare la filosofia di fondo, che anzi abbracciano in pieno.

E così la guerra contro lo svuotamento delle democrazie, contro il dominio totale dei capitali sui popoli, contro l'impoverimento economico e culturale di milioni di persone a vantaggio di elite queste sì globalizzate e anazionali si trasforma in guerra dei bottoni, semplice gioco in cui in fondo entrambe gli eserciti marciano sotto la stessa bandiera.