sabato 23 settembre 2017

Caos Ryanair: quando si spezza la corda liberista

Il ceo di Ryanair Michael O'Leary (ImagoE)
Lunedì scorso è iniziato il piano di soppressione di oltre 2100 voli annunciato da Ryanair. Fino a fine ottobre, la compagnia aerea irlandese cancellerà una cinquantina di voli al giorno (qui la lista completa), creando disagi per circa 400mila passeggeri.

Varie le scuse addotte per giustificare questa misura senza precedenti: la principale sarebbe un errore nel calcolo delle ore di riposo del personale a seguito di un adeguamento del calendario, ma a sentire le voci interne all'azienda e l'associazione dei piloti irlandese il vero problema sta nella fuga di un gran numero di piloti verso compagnie concorrenti. Circa 700 dall'inizio dell'anno finanziario, più altri 150 dalla scorsa primavera su un totale di circa 4000.

Che ci sia malumore nelle fila dei dipendenti Ryanair non è una novità: il modello di business della compagnia irlandese è da sempre improntato al massimo risparmio sul costo del lavoro (qui, qui e qui alcuni esempi), tuttavia la situazione in questo momento sembra più esplosiva che mai. La proposta della compagnia di un bonus di 12mila euro (da pagare tra 13 mesi) in cambio della rinuncia a parte delle ferie sarebbe già stata respinta dai lavoratori, che avanzano una serie di richieste alternative.

Così, la bella favola liberista della piccola compagnia di un piccolo paese che vince la competizione con i giganti dell'aria a suon di prezzi stracciati, permettendo di viaggiare per il mondo anche a chi non ha grandi risorse a disposizione, mostra il suo lato più oscuro: lavoratori a partita iva, pagati il minimo indispensabile e secondo le regole fiscali della nazione più conveniente per l'azienda, diritti sindacali azzerati, lettere di dimissioni che impongono il silenzio sulle condizioni di lavoro e altro ancora.

Ryanair è una delle più note aziende europee ad aver adottato sistematicamente questo modello, ma di certo non l'unica: nel nuovo millennio l'intero mondo del lavoro si è spostato sempre di più verso l'abbattimento del costo dei dipendenti come mezzo per essere più competitivi sul mercato, e le varie "riforme" del settore - tutte dello stesso stampo ideologico - chieste con forza dalla Ue e supinamente varate dai governi nazionali hanno facilitato ed accelerato questo processo.

Ma il gioco al ribasso sul costo del lavoro nasconde un prezzo che in ultima istanza supera qualsiasi vantaggio: un lavoratore che dispone di poco reddito è un consumatore che tende a spendere sempre meno, e più lavoratori a basso reddito ci sono, minori saranno i consumi. Né si può aggirare il problema inducendo i consumatori a comprare sempre più "a debito": prima o poi i debiti vanno saldati, ma con redditi sempre più risicati questo diventa impossibile.
E scoppia la crisi. Come quella da cui non ci siamo ancora risollevati

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