venerdì 10 ottobre 2014

La diaspora silenziosa



I miei amici se ne vanno.
Un bel giorno, mentre si parla del più e del meno, si commenta una partita o un film, annunciano la loro decisione.
"Ho pensato di andare a vivere fuori - dicono, tutti con lo stesso sorriso un po' forzato, - ho già comprato il biglietto, là (che può essere l'Inghilterra, come l'Olanda o l'Australia) c'è gente che conosco, ci sono più possibilità. Qui non c'è più niente da fare".
Li vedo andare via, alla spicciolata, con l'ottimismo nervoso di chi sa che sta compiendo un atto doloroso ma senza alternative. Devo incoraggiarli, dire loro che fanno bene e che staranno meglio, ma non riesco a nascondere del tutto la rabbia che provo.
I miei amici, come me, fanno parte della generazione perduta, quella che sta pagando e pagherà il tradimento compiuto dalla generazione precedente. Quando eravamo ancora troppo piccoli per renderci conto di quanto stava succedendo, hanno iniziato a toglierci il futuro, un morso alla volta.

Ci hanno detto che non avevamo il diritto di avere quelle certezze che erano state dei nostri genitori, quelle per cui i nostri nonni e i loro padri avevano lottato. Per noi sarebbe stato impossibile lavorare nello stesso luogo in modo stabile, contribuendo con il nostro operato alla crescita dell'attività e ricevendone in cambio esperienza e un salario duraturo. No, noi dovevamo imparare la flessibilità: un anno qui, due anni là, un anno a casa a sbattere la testa per cercare un nuovo impiego, come in un orrendo platform game in cui salti da una pedana all'altra sperando di non trovare mai quella che ti si sbriciola sotto i piedi.

Ci hanno detto che avremmo dovuto continuare a lavorare, a queste condizioni, molto più a lungo dei nostri genitori e dei nostri nonni per ricavarne forse, alla fine, una pensione inferiore alla loro. Non ci sono le risorse - ci hanno detto - ormai si vive troppo a lungo. E cosa importa se trovare un lavoro dignitoso superati i 40 anni è ormai praticamente impossibile, figurarsi a 50 o 60 e oltre: in fondo è della nostra vecchiaia che si parla, non della loro.

Ci hanno detto che non dobbiamo aspirare ad una casa che sia nostra, ad una famiglia da creare e veder crescere, cui tramandare ciò che sappiamo, ciò che ci hanno tramandato. Nel mondo che avevano in mente per noi esiste solo un eterno presente cui sopravvivere il meglio possibile, l'orizzonte che ci è concesso termina dopo una manciata di mesi. Non c'è tempo per pensare a cose che richiedono decenni.

E mentre continuavano a immolare il nostro futuro sull'altare delle loro ideologie economiche, si permettevano anche di insultarci: noi siamo i bamboccioni, i choosy, quelli che dovevano assaggiare di nuovo la durezza del vivere.

Così alla fine i bamboccioni hanno deciso di andarsene. Portandosi via il loro più grande tesoro: un patrimonio di studi, specializzazioni, cultura, idee e gioventù che andranno ad attecchire e fare frutti in altre nazioni, a beneficio di altri popoli. Se ne sono andati in 60.000 nel 2011, in 79.000 nel 2012 [1] e in 94.000 nel 2013 [2]; tutto fa presagire che aumenteranno ancora quest'anno e nei prossimi. Una vera e indiscutibile diaspora silenziosa, che ha però una differenza sostanziale rispetto alle precedenti: mentre tutte le emigrazioni di massa nella storia vengono raccontate come fenomeni negativi generati da disperazione e bisogno, la nuova emigrazione italiana è dipinta quasi in termini positivi, come sintomo di raggiungimento di quella tanto agognata "apertura" al mondo. Anche se le dinamiche e le motivazioni di fondo che costringono alla fuga sono le stesse dei tempi delle valigie di cartone, c'è in campo un tentativo di fare dei nuovi emigranti tanti piccoli Cristoforo Colombo, mossi da curiosità e spirito d'avventura più che da disagio e mancanza di prospettive.

Cazzate.

Di quel quarto di milione di italiani espatriati negli ultimi 3 anni, solo una minoranza trascurabile se ne va perché ha liberamente scelto di vivere altrove. La stragrande maggioranza camuffa da libera scelta quella che è una costrizione, tenta goffamente di salvare un po' di dignità per non dover ammettere di non riuscire a sopravvivere decentemente di fronte alla desertificazione industriale, al degrado morale e materiale, allo svilimento dei cittadini in atto nel fu Bel paese.

Penso che non esista fallimento più grande, per chi guida una nazione, che costringere i propri concittadini ad abbandonare amicizie, affetti, famiglia, terre care per cercare la sopravvivenza altrove. E' atto di violenza enorme e sorda perpetrato con incredibile indifferenza, qualcosa che oggi danneggia solo chi parte, ma domani si ripercuoterà inevitabilmente soprattutto su chi è rimasto.

Chi non si cura di tutto ciò, impegnato solo a cercare europacche sulle spalle per il proprio operato di Viceré, gli alchimisti del 3%, chi pensa che l'occupazione si crei tornando alle regole di lavoro dell'800, chi guarda con il sorriso i giovani che se ne vanno perché nei suoi deliri veterosessantottini vi vede l'alba del "mondo senza frontiere", chi fa spallucce e preferisce occuparsi di gossip e reality, non avrà alibi domani quando dovrà affrontare l'assenza di idee, di ricerca, di lavoro, della forza stessa di un'intera generazione.

[1] Fonte: Repubblica.it
[2] Fonte: Ilsole24ore.com


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