mercoledì 3 dicembre 2014

Stream of (un)consciousness


Ed alla fine Putin abbandonò il tavolo.

La lunga e tormentata vicenda del gasdotto South Stream giunge al capolinea, vittima dell'assurda guerra non convenzionale combattuta tra due pezzi d'Europa: la Russia e la tecnocrazia Ue. Con gli stati membri della seconda a fare da cannon fodder per il vero giocatore d'oltreoceano.

L'epitaffio al progetto, almeno nella forma attuale, è arrivato non a caso durante l'incontro tra Putin ed Erdogan ad Ankara. "Tenendo conto del fatto che finora noi non abbiamo ricevuto autorizzazioni dalla Bulgaria [1], crediamo che nelle condizioni attuali la Russia non possa continuare con la realizzazione del progetto" ha annunciato il presidente russo, dichiarando contestualmente l'intenzione di dirottare il percorso del gasdotto verso la Turchia.
Ancora più laconico il ceo di Gazprom Alexei Miller: "il progetto è finito".

Come al solito la notizia è stata opportunamente distorta dai media nostrani, facendo passare per sconfitta di Putin quello che è a tutti gli effetti un gesto di puro autolesionismo della Ue, ed una vera disfatta (l'ennesima negli ultimi anni) italiana, che tramite l'Eni era stata artefice e partner principale dei russi nel progetto. Ma il South Stream, idealmente gemello del North Stream già operativo, non è mai piaciuto ai nostri cari tecnocrati di Bruxelles ed ancora meno a Washington, che puntava le sue carte sul progetto Nabucco, il cui gas proviene dalle più "amichevoli" Georgia e Azerbaijan.

Come già accadde anni fa con lo sconsiderato rovesciamento di Gheddafi, la principale vittima collaterale della partita a scacchi energetica è l'Italia, che perde di colpo una partnership strategica, importanti commesse (2,4 miliardi di dollari, il 10% dell'intero portafoglio ordini, solo per la Saipem) ed un grande canale di rifornimento per le proprie industrie. Oltre ad una non indifferente quantità di posti di lavoro.

Il nostro Viceré ancora una volta fa spallucce, mentre il governo si affretta ad indicare fantasiose fonti alternative che dovrebbero garantire un prospero futuro energetico alla Nazione (posti notoriamente stabili ed affidabili come Mozambico, Congo Brazzaville e Angola, oppure progetti come il Tap, con tutte le sue problematiche di impatto ambientale ed in cui il coinvolgimento delle aziende energetiche italiane è pari a zero).

D'altra parte, quando come unica strategia si ha lo smembramento e la svendita del nostro patrimonio industriale per pagare un debito pubblico sulla cui genesi ci sarebbe moltissimo da dire, a che serve preoccuparsi di creare opportunità di crescita per le nostre aziende? Che senso ha darsi da fare perché l'Italia resti allo stesso tavolo dei grandi paesi industriali del mondo, quando si rimane pervicacemente aggrappati ad un organismo (la Ue) la cui politica è antitetica all'interesse nazionale?


[1] I lavori di realizzazione del gasdotto sono bloccati dalle autorità bulgare, che non vogliono contravvenire alle norme Ue sulla separazione tra chi fornisce e chi commercializza il gas, rinunciando di fatto ad utili per 400 milioni di dollari all'anno.

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