sabato 14 marzo 2015

Intanto in Islanda...

Sembra che il pesce islandese sia riuscito a scappare alla rete...
L'Islanda non vuole più l'Unione.

«Gli interessi dell’Islanda sono serviti meglio fuori dall’Unione Europea. L’Islanda non è più un paese candidato e chiede alla Ue di agire di conseguenza». Con queste scarne parole il ministero degli Esteri di Reykjavik ha annunciato il ritiro della candidatura del suo paese a membro della Ue.

E' la fine di un percorso iniziato con la vittoria del Partito Progressista (centro-destra) nel 2013. A gennaio di quest'anno erano stati bloccati i negoziati avviati dal precedente governo di centro-sinistra, e ieri è arrivato lo stop definitivo.

Piuttosto surreale la reazione dell'Unione: la portavoce del servizio diplomatico Ue si arrampica sui cavilli burocratici e sottolinea che l'Islanda «non ha formalmente ritirato la richiesta» di adesione, ma «sospeso il negoziato per due anni». «Se decidono formalmente di ritirare la domanda devono farlo al Consiglio dell'Ue che dovrà prendere le decisioni necessarie».
Prendere le decisioni necessarie? Forse negli uffici di Bruxelles sono troppo abituati a trattare con nazioni asservite e vicerè vari: l'Islanda non è la Grecia, cui si può far ingoiare di tutto; l'Islanda è una Nazione Sovrana e in quanto tale è lei a prendere le "decisioni necessarie". L'Unione può solo prenderne atto.

Naturalmente questa vicenda è passata nel silenzio più totale dei media: pochi articoli defilati sui principali giornali, zero visibilità televisiva (d'altra parte questa settimana c'era da parlare della vita sessuale di Berlusconi, che è molto più importante della più grave crisi economica dal 1929).

Rimane il fatto che l'Unione Europea sta rapidamente perdendo appeal sia all'interno dei suoi paesi membri che, soprattutto, all'esterno. E d'altra parte basta guardare qualche dato per capirne le ragioni:

A gennaio 2015 il tasso di disoccupazione nell'area Euro è dell'11,2%, in Islanda è al 4,4%; la disoccupazione giovanile è rispettivamente al 22,90 e al 9,10; il tasso di crescita annuale del Pil tra i paesi Euro nel 2014 si è fermato allo 0,9 mentre in Islanda è stato del 3 (Fonte: Tradingeconomics.com).

Già solo una veloce lettura dei dati basterebbe a giustificare la scelta islandese di tenersi più lontana possibile dal mostro eurocratico, ma giova anche ricordare che la sovranità economica consentì all'Islanda di affrontare la crisi del 2008 in modo opposto rispetto all'Unione: anziché scaricare i costi dello scoppio della bolla speculativa del settore bancario sui cittadini, il governo di Reykjavik lasciò fallire le banche. I creditori persero miliardi di dollari, ma il debito pubblico dell'isola non ne venne aggravato. A ridosso della crisi ci fu un brusco aumento dell'inflazione (fino al 19%) e lo stato dovette potenziare i fondi destinati all'assistenza sociale, ma già nel 2012 era scesa intorno al 5% ed oggi è allo 0,8%.

Niente austerità, niente compiti a casa, niente Troika (o come cazzo si chiama oggi). Solo indipendenza e libertà di governarsi secondo i propri bisogni.

In una parola, sovranità.

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