domenica 24 maggio 2015

100 anni fa, la guerra.

"Sono giunto e non indietreggerò", motto del 92° Reggimento fanteria "Basilicata"

Esattamente cento anni fa, il 24 maggio 1915, l'Italia viveva il suo primo giorno di belligeranza nella Prima guerra mondiale. Il conflitto per noi sarebbe durato 3 anni e mezzo e si sarebbe concluso con la vittoria, al carissimo prezzo di 1.240.000 caduti tra militari e civili.

Un secolo dopo, le istituzioni si apprestano a vivere la ricorrenza con indifferenza, se non con fastidio. Le iniziative organizzate per ricordare il centenario sono modeste sia nei toni che nei contenuti. Il focus di quasi tutte è sugli orrori, sulla durezza, sul dolore delle trincee; molto spesso ricorre la definizione di "inutile strage" utilizzata dal papa di allora, Benedetto XV. Si dà per scontata la teoria che vuole nel malsano nazionalismo la causa della guerra e dell'affermazione dei movimenti totalitari negli anni successivi all'armistizio, a loro volta causa della seconda guerra mondiale. Ne deriva che per conseguire e mantenere la pace è necessario innanzitutto liberarsi del nazionalismo.

Beh, questa roba non sta in piedi. Dato per scontato che la guerra è sempre e comunque una strage e che non è mai auspicabile il ricorso alle armi, addossare al nazionalismo la colpa della Grande guerra e di tutte le sciagure che afflissero l'Europa nei 30 anni successivi è un clamoroso, e forse interessato, errore. Perché la prima guerra mondiale ebbe origine dall'antistorico tentativo di reprimere la volontà dei popoli ed il loro diritto di organizzarsi in nazioni libere e omogenee. Non fu il nazionalismo, ma chi gli si opponeva a causare il crollo del continente e la strage.

Già da un secolo, prima della Grande guerra, l'Europa era scossa da un imponente moto interno che ne stava ridisegnando la fisionomia: dalla Grecia all'Italia, dalla Polonia all'Ungheria, ovunque si lottava per superare gli ammuffiti resti dell'Europa feudale e per costruire nuovi stati, non più disegnati a tavolino sui voleri delle dinastie regnanti, ma maggiormente rispondenti alle esigenze ed alla volontà dei popoli. Le lotte per l'unità e l'indipendenza delle nazioni si accompagnarono quasi ovunque alle lotte per i diritti dei popoli, alla pretesa di Costituzioni scritte che impegnassero i governanti a doveri precisi nei confronti dei cittadini.

Nel 1914 esistevano nel continente due Imperi sovranazionali che incorporavano nel proprio territorio popoli diversi per storia, costumi, lingua e religione: l'Impero austro-ungarico e l'Impero ottomano. Mentre il secondo era già in via di disfacimento, il primo era sotto diversi aspetti ancora efficiente e vitale, con una monarchia costituzionale e un assetto federale che riconosceva pari dignità almeno alle due etnie maggiori (tedeschi e ungheresi). Ma ciò non bastò a fermare la spinta verso l'unità e l'indipendenza dei popoli che lo componevano. Serbi, cechi, sloveni, italiani, croati, romeni: popoli diversi, con storie, tradizioni e volontà diverse, tenuti forzatamente assieme in un gigantesco Interessenstaat (Stato d'interessi, come lo definì il feldmaresciallo Conrad), spingevano inesorabilmente ognuno verso la propria libertà, che fosse intesa come riunione alla madrepatria (italiani, serbi, romeni) o rinascita di una patria comune (polacchi, cechi, croati, slovacchi).

L'origine della guerra non fu il nazionalismo, ma la repressione delle aspirazioni alla libertà ed all'indipendenza delle nazioni.

Accadde nel 13° secolo con le guerre d'indipendenza scozzesi, nel 16° con la rivolta dei Paesi Bassi, nel 18° con la guerra d'indipendenza degli Stati Uniti, all'alba del 19° secolo nell'America Latina e via via fino ad oggi, con le rivolte e le secessioni che segnarono il disfacimento dell'Unione sovietica e della Jugoslavia. Ogni volta che nella storia un popolo prende coscienza di sé e della sua unicità, quel popolo inizia a reclamare libertà e indipendenza, e non si ferma se non quando le ha ottenute. La Prima guerra mondiale segna in Europa la morte degli Stati intesi come meri possedimenti dinastici, in cui i popoli passano di sovrano in sovrano alla stregua di bestiame, e una vittoria (seppur parziale e temporanea) degli Stati-Nazione, espressione della libera volontà dei popoli.

Per l'Italia la grande guerra avrebbe dovuto costituire l'ultimo atto dell'immane processo di unificazione e indipendenza che aveva occupato tutto il 19° secolo. Fu un impegno terribile, durante il quale soldati e civili subirono fame, freddo, malattie, mutilazioni, ferite profondissime nel corpo e nella psiche, aggravate dall'ottusità degli ordini di una parte del comando militare. Nonostante questo, nonostante tutto il male che è ogni guerra centinaia di migliaia di italiani compirono il loro dovere fino in fondo. Persone comuni con vite comuni: affetti, famiglie, speranze e paure; spinte dalle più diverse motivazioni seppero affrontare quella orrenda prova per tre anni e mezzo, cessando il proprio impegno solo quando ovunque furono deposte le armi. Nessuno dei caduti, nessuno dei feriti nessuno degli sfollati fu "invano": questo avverbio è un insulto per chi avrebbe potuto fuggire e rimase, avrebbe potuto ignorare e partecipò, avrebbe potuto serbare e donò.

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